Mitologia e Antropologia

La storia di Nemi - o meglio, del bosco del lago, il nemus - si intreccia indistricabilmente con la mitologia. Qui gli antichi situavano il regno di Diana, e affascinanti storie trovano collocazione sulle pendici del cratere di Nemi.

Cominciamo dal nome stesso del paese.

"Nemi" viene dal latino nemus, nemoris, ‘bosco sacro’.
E, risalendo indietro nell’etimo, Nemus viene dal verbo greco nemw (nemo), ‘pascolare’, che poi assume il significato di ‘abitare’, e quindi, con ulteriore ampliamento concettuale, di ‘governare il territorio in cui si vive’: e infatti la legge in greco è nomoV (nomos). Ora, il sostantivo nemoV (nemos) in Grecia è il pascolo; poi diventa per estensione ‘luogo con vegetazione’ e quindi ‘bosco’. E NemesiV (nemesis), che in età classica è la dea della giusta punizione (se nomos è la legge, il giudice esecutore è nemesis, ovviamente), in origine era la dea dei boschi. Cioè Diana...

Insomma, il Nemus è insieme il bosco e la legge: il luogo su cui la dea ha sede e giurisdizione. Per un antico, entrare nel nemus era come per noi entrare in una cattedrale: gli alberi come i pilastri e le colonne, l’erba e i fiori come i mosaici; silenzio, atmosfera di sacro tutt’intorno, senso di reverenza e timore. La natura come l’idea stessa del divino.

Ma chi è Diana?

Diana, nel cui nome troviamo la radice indoeuropea DI, che indica la luce solare (cfr. il latino dies, l’inglese day, l’italiano dì, diurno), è una delle personificazioni della dea madre, unica divinità dell’epoca preistorica, l’onnipotente dea della natura e della vita e quindi anche della fertilità, sia della terra che delle donne; nonché della caccia - in un periodo in cui per mangiare si va a caccia, la dea della vita è ovviamente anche la dea della caccia. Quando gli uomini non avevano ancora capito che c’era un collegamento di causa-effetto fra il coito e la gravidanza (e le donne si guardavano bene dal dirlo) il potere lo avevano le donne in quanto depositarie del magico segreto della vita: è il cosiddetto periodo del matriarcato, che tutte le civiltà della Terra hanno conosciuto. A capo della comunità c’era una regina, che fungeva da rappresentante mortale della dea madre. Per accoppiarsi la regina sceglieva un uomo della tribù e lo teneva come amante per un breve periodo, finché non fosse incinta. A questo punto l’amante veniva ucciso. Un po’ perché andava ribadito alla comunità che l’uomo non serve, e un po’ perché la sua uccisione fungeva perfettamente da rito propiziatorio per il raccolto: il suo sangue, sparso sulla terra e sulle piante, garantiva la fertilità e scongiurava la siccità.

Questo orribile rituale del divino paredro (cioè dell’amante della dea), che antichissimamente veniva praticato quasi in tutte le civiltà, è adombrato in moltissimi miti greci, nordici, orientali e mediorientali. A Nemi sfocia nella leggenda del rex nemorensis e del ramo d’oro.

Bisogna rifarsi al mito greco di Ippolito, figlio di Teseo (quel Teseo che uccise il minotauro). Ippolito era un ragazzo molto amante della caccia e quindi devoto ad Artemide (l’equivalente greco di Diana). Sportivo, salutista e casto, non amava molto Afrodite (cioè Venere, la dea dell’istinto sessuale), e la dea si vendicò facendo innamorare di lui la matrigna Fedra. Questa fece delle avances al figliastro, che inorridito le respinse e minacciò di dire tutto al padre. Fedra, impaurita, come contromossa raccontò a Teseo che Ippolito l’aveva insidiata. Teseo maledisse il povero Ippolito, che scappò via sconvolto; ma mentre correva col suo cocchio lungo la costa, uscì dal mare un mostro. I cavalli si impennarono, il cocchio si rovesciò in corsa, e Ippolito morì. Ma Artemide giunse in soccorso del suo adoratore. Ottenne da Asclepio, dio della medicina, che lo risuscitasse strofinandone il cadavere con un ramo di mirto, e portò il ragazzo in un luogo più sicuro, dove non sarebbe stato più molestato: la selva di Nemi, che era il suo regno personale. Per sicurezza cambiò nome ad Ippolito, che da allora si chiamò Virbio. Con questo nome Ippolito regnò sul territorio del bosco, diventando il rex nemorensis.

Ma ad un certo punto ci fu bisogno d’un successore. Un re-sacerdote della natura e degli alberi non può ammalarsi, non deve invecchiare! E deve essere sostituito prima di perdere le forze, e rifecondare la selva col suo stesso sangue. E così invalse l’usanza che, chi voleva tentare di prendere la carica, doveva strappare un rametto di vischio (il ramo d’oro) dalla grande quercia sacra che stava nel recinto del Santuario. Chi riusciva a raggiungere il rametto poteva tentare il duello col re in carica e ucciderlo; o venirne ucciso, ovviamente. Tentavano soprattutto gli schiavi fuggiaschi, che non avevano niente da perdere perché se il padrone li riacchiappava li uccideva comunque per dare un esempio agli altri schiavi.

In realtà questo cruento avvicendarsi di re è il rito dell’uccisione del divino paredro di cui sopra, solo che ormai siamo in periodo patriarcale: gli uomini hanno capito che la discendenza dipende anche da loro, hanno spodestato le donne e ribaltato i ruoli. Ma l’usanza sanguinosa resiste, e così il nuovo capo deve ammazzare il vecchio per prenderne il posto.

Lo stesso nome Virbio la dice lunga in fatto di tramonto del matriarcato: è composto da vir, radice che indica vigore, forza, giovinezza (ne deriva l’aggettivo viridis, verde, che è il colore delle piante in piena floridezza) e da bios, la vita; e vir in latino significa uomo. Virbio è, insomma, l’uomo vigoroso, l’uomo che è riuscito a trionfare sulla donna ed ha preso il potere grazie alla sua forza fisica.

Quanto al vischio, si tratta di una pianta parassita che cresce direttamente dal tronco degli alberi, e che agli antichi sembrava particolarmente magica perché stava, per così dire, sospesa fra cielo e terra, senza affondare le radici apparentemente da nessuna parte: quindi una cosa divina, forse anzi mandata direttamente dagli dei insieme al fulmine. Insomma, una specie di credenziale "dall’alto" che bisognava avere per tentare la sorte e il dubbio onore di diventare il re del bosco, l’incarnazione del Dio della vegetazione.

Un’ampia spiegazione di questo rito è stata fatta dall’illustre antropologo scozzese sir James George Frazer (1854-1941), che ha reso Nemi famosa nel mondo della cultura col suo libro Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, opera di fondamentale importanza nella storia dell’antropologia moderna. Incuriosito dalle testimonianze storiche sul Rex Nemorensis, Frazer volle ricercare le possibili spiegazioni d’un rituale tanto strano e cruento, così poco ‘normale’ per la civiltà romana. Investigando sui riti religiosi legati alla natura, le stagioni e i raccolti in tutto il mondo, arrivò alla conclusione che lo strano, crudele rito di successione del re-sacerdote del bosco di Nemi sia da inscriversi in una serie di antichissimi riti consimili, comuni a tutti i popoli celtici - ma anche ad altri ceppi etnici, in Asia, in Africa, in America - che a volte, enormemente sbiaditi, e, per così dire, addolciti, sopravvivono ancora sotto forma di feste locali in occasione del raccolto o della semina.

In buona sostanza, l’uomo primitivo - dice Frazer - identifica le divinità con i fenomeni naturali (il tuono, il lampo, il sole, la notte, il terremoto ecc.); e il rinnovamento annuale della vegetazione, che porta al raccolto e alla sopravvivenza, è uno dei fenomeni naturali che lo toccano più da vicino. Quindi anche la vegetazione è un dio, e questo dio abita nelle piante e ne segue la stessa sorte, ciclicamente invecchia e ingiallisce, perde le foglie, si secca, ma poi torna a nuova vita in primavera, e ci regala cibo rinverdendo e maturando i frutti. Ecco sicché che il rappresentante del Dio della vegetazione, deve ritualmente essere ucciso ogni anno per potere poi risorgere di nuovo vigoroso e garantire magicamente il ritorno dei frutti. Un sacrificio necessario per avere poi il risultato sperato: il raccolto. La mentalità superstiziosa dei primitivi teme che senza rito propiziatorio non si avrebbe il raccolto. Quindi, non potendo sacrificare il Dio in persona, c’è bisogno d’un suo rappresentante a cui far subire l’orribile ma necessario destino di morte e risurrezione. E questo sacerdote deve prendere, per essere legittimato al ruolo, il simbolo divino della vita delle piante (il famoso ramo d’oro, il rametto di vischio che cresceva sulla grande quercia sacra del Nemus); dopo di che potrà scontrarsi col sacerdote in carica e sostituirlo uccidendolo.

Frazer trascura di collegare questo rituale con quello dell’uccisione matriarcale del divino paredro; ma sicuramente un collegamento c’era, nella principale zona di culto della Grande Dea. Il rex nemorensis (rappresentante mortale del Dio della vegetazione) s’accoppiava con la sacerdotessa di Diana (capo della comunità e rappresentante della Dea della vita) per garantire tutte le forme di vita, vegetali e animali; e poi veniva ucciso. Probabilmente veniva scelto con una gara, che doveva consistere proprio nel riuscire a prendere il ramo d’oro. Poi, caduto il matriarcato, il rito rimase con il solo scopo di favorire il ritorno della vegetazione.