Le navi di Nemi

di Marina e Massimo Medici
Per gentile concessione di Controluce

Che strano destino quello delle due navi romane: per poco tempo hanno galleggiato sul lago di Nemi. Per due millenni hanno dormito in fondo al lago e, se vi fossero rimaste ancora per qualche anno, non sarebbero state divorate dalle fiamme.
Nessun autore dell’antica Roma ne ha mai parlato.
Se ne conosceva (anzi se ne supponeva) l’esistenza solo perché i pescatori, già dal Medioevo, di tanto in tanto, oltre ai pesci, portavano alla superficie numerosi reperti archeologici che provavano come qualcosa d’antico e di bello giacesse in fondo al lago. Ma di che cosa si trattasse esattamente nessuno lo sapeva; così la fantasia poteva correre a briglia sciolta; e si cominciò a pensare, a sperare in tesori nascosti, mentre ogni volta che le reti strappavano dal fondo qualche cosa era la prova che… qualcosa vi fosse.
Passarono i secoli e di tanto in tanto qualcuno provava a carpire, alle acque, il loro segreto; ma i tentativi erano volti solo ad assicurarsi cimeli e a strappare quelle opere d’arte che potevano impigliarsi nelle reti, senza quindi quello spirito di ricerca scientifica che deve caratterizzare una campagna di recupero archeologico.
Peraltro va detto che nei secoli passati non esisteva quello spirito, ma solo l’iniziativa dei singoli che, nella più completa libertà d’azione e senza nessun controllo da parte dello Stato, potevano prelevare (ma sarebbe meglio dire saccheggiare) tutto ciò che apparteneva al passato. Questo, che a noi moderni sembra assurdo, è accaduto non solo in tutto il Medioevo, ma in tempi quasi contemporanei. Basti pensare che i Papi, molte volte, smantellavano meravigliose opere dell’antica Roma per farne mattoni.
Lo stesso Colosseo, il più grande monumento di Roma, non sfuggì a questa sorte. Gli furono tolti i marmi che ne ricoprivano le pareti, e oggi possiamo ammirare solo i fori in cui erano inseriti i loro supporti. Se ne cominciò la demolizione per costruire, con le sue pietre, altri monumenti e chiese che potessero sostituirsi a quelle erette in onore degli dèi "falsi e bugiardi".
E pensare che Roma, nella sua grandezza, accoglieva e onorava tutti gli dèi che erano venerati dai popoli con i quali veniva in contatto. Basti menzionare il Pantheon nel quale ogni divinità aveva il suo altare. Ma Roma era grande; abbracciava col suo spirito tutto il mondo allora conosciuto e il suo orizzonte era degno del suo spirito. Questo breve tuffo nei secoli passati che non si curavano dell’antica grandezza di Roma, è stato necessario per sottolineare come, per tanto tempo, delle Navi di Nemi non ci si fosse occupati per nulla.
Ad onor del vero, va anche detto che non c’erano, allora, i mezzi tecnici per raggiungere quelle imbarcazioni che riposavano sul fondo del lago. Qualche raro tentativo si fece, anche se non si aveva la certezza di cosa vi fosse esattamente nelle profondità delle acque, mentre i racconti delle genti che vivevano intorno a quello specchio d’acqua continuavano a mantener vivo l’interesse sui segreti custoditi dal lago.
E venne il tempo in cui alcuni spiriti colti e amanti dell’arte ascoltarono con interesse quei racconti, esaminarono con attenzione gli oggetti che tornavano alla luce del sole dopo tanti secoli d’oblio e si adoperarono a restituire a tale luce quelli che ne erano privi. Nelle prossime pagine parleremo del motivo per il quale quelle navi furono costruite, dell’uso che se ne fece e di chi le volle. Del perché, dopo pochi anni, andarono perdute e di cosa vi fosse su di loro e perché fossero collegate al santuario di Diana Nemorense.
Dei tentativi di recupero che furono fatti nei secoli da eminenti personaggi fino a quello definitivo, raggiunto con mezzi d’avanguardia, e seguito purtroppo, a brevissimo tempo, dalla loro distruzione. Esaminando quei ritrovati tecnici connessi all’arte nautica che, conosciuti dai romani, dimenticati per tutto il Medioevo, riscoperti ai nostri tempi e usati con orgoglio dalle marine moderne, ci si avvede come già facessero parte del bagaglio culturale e tecnico di Roma.
Parleremo delle moderne àncore di duemila anni fa; delle piattaforme rotanti su cuscinetti a sfere conosciute e usate, poi dimenticate e… riscoperte; della tecnica nella costruzione dello scafo, del suo calafataggio ottenuto usando speciali materiali tipici delle navi marine e adoperati per le navi lacustri che hanno esigenze diverse. Diremo dei diversi tipi di chiodi e della particolare tecnica del loro uso marinaro. Per ultimo, del Museo delle Navi, di ciò che contiene, di quello che è stato portato altrove in vari musei e anche in case patrizie; e ancora di quello che ci si sta proponendo di fare per trasmettere alle future generazioni la nozione e il ricordo degli sforzi che sono stati fatti nel recupero che fu definito l’avventura archeologica più entusiasmante di tutti i tempi. Sappiamo che nessun autore classico ha parlato delle navi, ma già nell’alto Medioevo gli abitanti di Nemi sapevano dell’esistenza di qualcosa di molto particolare nelle acque del lago. Un’antica città sommersa? Tesori? Ricchezze? Solo quando iniziarono precise ricerche, a partire dal XV secolo, si capì che si trattava di imbarcazioni. Due navi antichissime cominciarono allora lentamente ad avvicinarsi, ancora avvolte nelle nebbie dei secoli.
Se ne scorgevano appena i contorni che grondavano d’acqua e di storia. I ponti, deserti, erano affollati di fantasmi. Ora noi moderni possiamo rispondere finalmente alla prima domanda: chi le volle? Si sono fatte mille ipotesi su chi potesse essere il personaggio, certamente ricco e potente, che ne ordinò la costruzione. Si fecero vari nomi, ma la certezza si raggiunse solo quando, fra i numerosi reperti che si trassero dalle acque, comparvero le così dette fistulae acquariae. Sono esse delle grosse tubazioni in piombo che facevano parte di un impianto idraulico alla portata delle possibilità economiche di persone particolarmente ricche e potenti. Portavano l’acqua corrente sino all’interno dei loro palazzi. Convogliandola, poi, in altre fistule plumbee, veniva utilizzata come acqua potabile e per alimentare le fontane che abbellivano le case dei romani doviziosi. Questi tubi erano ricavati da lastre rettangolari di piombo saldato longitudinalmente e si era soliti stampigliare su di essi il nome del proprietario, spesso il nome del "liberto idraulico" e a volte il numero progressivo. Fu così che si risalì all’identità di chi le volle: l’imperatore Caligola. Egli non desiderò due navi qualsiasi, ma con una particolarità peculiare: dovevano essere portatrici di costruzioni di tipo terrestre, con terme e templi coperti da tegole in terracotta oppure in bronzo ricoperte da una patina d’oro. E poi colonne di varia grandezza e foggia, pavimenti in mosaico, statue e altre opere in bronzo finemente lavorato, e ancora statue, protomi leonine, ghiere per i timoni e tante, tante cose ancora… Fra queste, come abbiamo visto, anche le fistule plumbee che assicuravano il rifornimento idrico, partendo dalle rive del lago e arrivando fino alle navi, a tutte le numerose persone che si accompagnavano all’imperatore su quelle: ospiti illustri, dignitari, musici, soldati, amici e… nemici, vista la fine che fecero Caligola e le sue navi. Ma chi avrebbe mai desiderato due navi per innalzarci sopra costruzioni di tipo terrestre? E per farci cosa, visto che grandi e lunghi viaggi non se ne possono fare in un piccolo lago come quello di Nemi? Insomma. Caligola, chi era costui? Cominciamo dal nome, anzi dal soprannome. Lo chiamarono così i legionari romani con i quali visse per lunghi anni fin da bambino, seguendo il padre nelle guerre contro i Germani. Lo chiamarono così perché Caio Giulio (era questo il suo nome) soleva portare le calzature militari dette caligae; il suo soprannome voleva quindi dire "piccola scarpa". Nacque ad Anzio nel 12 d.C. L’imperatore Tiberio, successore di Augusto, lo adottò come nipote e lo designò suo erede. Il Senato accettò di buon grado la sua candidatura e lo elesse imperatore nell’anno 37, quando aveva solo 25 anni ed era un giovane che sembrava pieno di energia e di spirito intraprendente. Ma c’era una ragione per cui i senatori lo elessero volentieri: speravano che avrebbe interrotto la politica di Tiberio che aveva cercato di mettere da parte il Senato nella conduzione dello Stato. Egli deluse queste aspettative e, forse, furono proprio i senatori che descrissero e fecero descrivere il principato di Caligola come una lunga, unica, continua pazzia, che si sarebbe manifestata attraverso manie di assolutismo e di persecuzione. Passò alla storia come un uomo che infierì sui propri parenti, fece uccidere grandi dignitari dell’impero, volle farsi adorare come dio, compì stranezze e crudeltà di ogni genere e, infine, nominò senatore il proprio cavallo! Inoltre fu sospettato di avere rapporti incestuosi con sua sorella Drusilla, che divinizzò dopo la morte. Avrebbe voluto erigere una sua statua nel Tempio di Gerusalemme, ma incontrò forti opposizioni e dovette desistere dal proposito. Fu responsabile di gravi disordini tra gli Ebrei ad Alessandria e in Giudea. Tutto questo non gli impediva di coltivare uno sfrenato amore per il lusso e di creare, intorno alla sua persona divinizzata, una fastosissima corte da monarca orientale. Invero ci fu anche del buono: appena nominato imperatore, limitò, continuando la politica di Tiberio, i poteri del Senato e si appoggiò al popolo, al quale ridusse le imposte, fece elargizioni e concesse amnistie, e restituì l’antica autorità ai Comizi centuriati e ai tribuni. Volle, cioè, che i Romani si riappropriassero di quegli strumenti amministrativi del passato gestiti direttamente dal popolo, che avevano fatto grande Roma attraverso, appunto, l’esercizio del potere da parte dei cittadini. Ma questi orientamenti furono solo iniziali, poiché Caligola mirò alla deificazione dell’imperatore da vivo, pretese quindi onori divini e aumentò ancor di più il fasto della sua corte. Detto questo, forse, riusciremo a comprendere il perché delle due navi. Lo sfarzo esagerato in cui viveva però costava molto e Caligola fu costretto a imporre nuovi tributi per far fronte alle spese. In tal modo, come era prevedibile, perse il favore del popolo. Inoltre il suo potere e la sua autorità diminuirono in conseguenza di due spedizioni militari particolarmente infruttuose: una in Britannia e l’altra in Germania. Divenne molto sospettoso e inutilmente crudele, finché, anche a causa della sua dissolutezza, fu ucciso in una congiura di senatori e cavalieri organizzata dal tribuno Cassio Cherea. Era il 24 gennaio dell’anno 41 e con lui, nel palazzo, trovarono la morte la sua quarta moglie e la sua unica figlia. V’era una consuetudine nel mondo antico romano: la damnatio memoriae, cioè la distruzione di ciò che una persona, particolarmente odiata, aveva fatto in vita. Essa faceva parte delle pene che colpivano la maiestas e prevedeva che il praenomen del condannato non si tramandasse in seno alla sua famiglia, che le sue immagini venissero distrutte e il suo nome cancellato dalle iscrizioni. Anche Nerone e Didio Giuliano vennero chiamati hostes, cioè nemici, e condannati dal Senato. In altri casi, invece, i senatori votarono una damnatio memoriae postuma che comprendeva anche la rescissio actorum. Roma, grande e terribile: come le sue leggi! Esse sapevano trasformare un nemico vinto in uno schiavo; uno schiavo, se uomo di valore, in liberto; un liberto, se uomo di cultura, in precettore; un generale, se valoroso, in imperatore, come accadde a Diocleziano, che era addirittura figlio di un liberto. L’Urbe sapeva, quindi, innalzare alle supreme vette dello Stato un cittadino fino a farne un dio, se meritevole, ma sapeva anche precipitarlo nell’abisso del nulla. Nel caso della damnatio memoriae le leggi di Roma tendevano a cancellare addirittura lo stesso nome e financo il ricordo d’un cattivo cittadino. E se esse lo colpivano quando era ancora vivo, venivano a creare, dal punto di vista giuridico, una sorta di morte civile. Era quello che il Romano antico temeva di più d’ogni cosa: non fare più parte dell’Urbe, pur essendo ancora vivo. Non poter più dire: "Noli me tangere, civis romanus sum" e incutere, con queste parole, un immenso rispetto e timore intorno a sé. Era come la morte; era più della morte. Le due navi di Nemi erano state volute da Caligola, e quando questi fu ucciso, nell’anno 41, furono affondate con tutto quello che contenevano. Il lago inghiottì un’opera unica e lussuosa che giacque per due millenni sul fondo. Nessuno mai ne scrisse una parola, e su di esse scese l’oblio. Solo qualche pescatore, di tanto in tanto, traendo dalle acque le reti, strappava dall’abisso e riportava alla luce qualcosa che sembrava appartenere a un altro mondo lontano. Ne nacque una leggenda.

I primi due tentativi di recupero
Abbiamo scoperto colui che volle due navi nel lago di Nemi. L’uso che Caligola ne fece, però, dobbiamo desumerlo studiando il personaggio, osservando attentamente come erano costruite e cosa vi fosse sopra le due navi; quali reperti tornarono alla luce ed a che cosa potessero servire; quali riti e credenze religiose vi fossero all’epoca. Tutto questo poiché mancano completamente scritti di storici, canti di poeti o libri di scrittori classici che parlino dell’argomento. Dell’Imperatore abbiamo già parlato nel capitolo precedente: della sua personalità, delle sue manie di assolutismo, delle stranezze e crudeltà che ci tramanda la storia. Continuiamo, allora, con i tentativi di recupero che si fecero nei secoli passati. Così, attraverso lo studio dei reperti che si riuscì più o meno maldestramente a strappare al lago, fino al recupero completo delle due imbarcazioni, potremo, forse, risalire al pensiero di Caligola come si farebbe con i pezzi di un mosaico che si volessero rimettere al loro posto, gli uni accanto agli altri, per ottenere di nuovo l’intera opera d’arte. Il primo di questi tentativi lo dobbiamo al cardinale Prospero Colonna nell’anno 1446. Questo prelato, signore delle terre di Nemi e del lago, uomo di vasta erudizione e, come tutti gli studiosi del tempo, entusiasta di quanto poteva riferirsi alle glorie di Roma antica, avuta cognizione delle voci dell’esistenza delle navi, volle tentare di riportarle a galla. Nonostante non si fosse ancora in possesso di mezzi tecnici idonei al recupero di navi affondate, affidò il difficile compito a Leon Battista Alberti. Questi non solo aveva giusta fama come umanista e letterato, ma era anche considerato fra i più esperti ingegneri idraulici del suo tempo. A Leon Battista Alberti Roma deve essere particolarmente grata per aver sapientemente restaurato e riattivato, per ordine di Nicolò V°, l’acquedotto detto dell’Acqua Virgo e di Trevi. Ma parlare dell’Alberti senza fare almeno un accenno all’attività multiforme del massimo esponente della cultura umanistica è impossibile. Con lui l’arte diventa l’asse del nuovo sistema culturale e assume valore di dottrina autonoma ed egemone, ponendosi come concezione del mondo. I suoi tre trattati della pittura, della scultura e dell’architettura costituiscono una completa teoria dell’arte. Quanto all’architettura, egli è il primo architetto che valuti, anche dal punto di vista psicologico, il trapasso emozionale dalla luminosità e dalla concretezza volumetrica dell’esterno alla penombra ed alla cavità dell’interno. Tra gli altri capolavori, progetta una facciata anche per la chiesa gotica di Santa Maria Novella; ma non dobbiamo dimenticare il Palazzo Rucellai a Firenze. Fissa, in questo caso, il tipo del palazzo signorile che, come dichiara nel "Trattato", deve imporsi più con il prestigio intellettuale delle proporzioni che con l’ostentazione del fasto e della forza. Per Mantova l’Alberti progetta le chiese di S.Sebastiano e di S.Andrea. Questi era l’artista a cui il cardinale Colonna affidò l’arduo incarico. Le operazioni di recupero delle navi ebbero inizio e furono descritte da Flavio Biondo da Forlì, altro dotto umanista, storico, segretario di quattro pontefici, autore di una "Storia d’Italia del Medioevo" e di una "Italia illustrata" nella quale, appunto, ritroviamo il resoconto delle operazioni dell’Alberti. È da rilevare che, con curioso epiteto, le navi vengono chiamate "annegate". Come s’è detto in quel tempo non si disponeva di adeguati mezzi tecnici atti alla bisogna, e Leon Battista Alberti chiamò alcuni valenti nuotatori genovesi, i famosi marangoni, che oltre ad essere esperti del nuoto, dovevano avere una buona dose di coraggio. Dico questo perché, senza le maschere da sub moderne, cioè immergendosi con l’acqua che tocca direttamente il bulbo oculare, si ha una sensazione di effetto nebbia. Tale effetto non fa percepire con nitidezza l’ambiente circostante ed andando sempre più a fondo si ha l’impressione, mancando quasi del tutto la visibilità, di penetrare in un ambiente ostile senza sapere cosa c’è dopo. Ora, i marangoni, andando sotto senza maschera, naturalmente in apnea, vedendo poco e niente né lateralmente, né soprattutto al di sotto, si avvicinavano ad una "cosa" ancora non conosciuta, misteriosa e forse ostile, piena di storia e di antiche leggende… dovevano avere certo un bel coraggio. Essi raggiunsero e, per quanto fu loro possibile, esplorarono la nave più vicina alla riva che era adagiata sul fondo del lago e ne riferirono la distanza e la profondità. Si costruì una piattaforma galleggiante e con delle corde munite di ganci, si tentò di tirare la nave a riva. Si riuscì invece solo a strappare un pezzo dell’imbarcazione, e insomma il risultato fu semplicemente disastroso: non solo la nave nel suo insieme non si mosse ma, privata di una parte importante della sua struttura, fu seriamente danneggiata. Tuttavia molti personaggi della Corte di Roma che seguivano i lavori dalla riva del lago si affollarono ad ammirare quel frammento dell’antica Roma che tornava alla luce del sole. Poi fu portato trionfalmente nell’Urbe perché fosse ammirato da Nicolò V°, valoroso promotore del Rinascimento umanistico. Passati alcuni anni, però, non si ebbe più notizia di che fine avesse fatto il reperto; tuttavia questo episodio ebbe il merito di accendere il fuoco del desiderio di ricerca e di studio. Il secondo tentativo, non meno rovinoso del precedente, lo dobbiamo a Francesco De Marchi nel 1535. È passato quasi un secolo. Il tentativo è documentato da un resoconto sulla nave più tecnicamente preciso. Il De Marchi, che era allo speciale servizio di Alessandro de’ Medici, Duca di Toscana, oltre ad essere un erudito aveva fama di essere un celebre architetto meccanico specialmente dedito ad opere di carattere militare. Era autore di un trattato di "Architettura militare", nel quale è data ampia notizia del suo tentativo. Contrariamente a chi lo aveva preceduto non delega ad altri l’esplorazione del lago, ma si immerge personalmente varie volte avvalendosi di una specie di "campana" inventata da Guglielmo di Lorena, che partecipa anch’egli alle immersioni. Come si vede non è passato del tutto un secolo e già c’è un notevole progresso… di mezzi tecnici subacquei: dalle braccia dei nuotatori ad una campana per l’esplorazione sott’acqua. De Marchi stesso ce lo descrive in un suo scritto. L’istrumento era fatto di legno ed aveva la forma di una campana le cui parti erano tenute l’una stretta all’altra per mezzo di alcuni cerchi di ferro. Avevano un tondo di vetro sul davanti per vedere di fuori, mentre l’esploratore poteva entrarvi fino alla metà del corpo avendo braccia e gambe libere. L’aria poteva entrare nella campana e probabilmente poteva uscirne, ma per mezzo di un altro tubo. In ogni caso l’esatta tecnica del ricambio dell’aria non si conosce, anzi, Guglielmo di Lorena fece giurare al De Marchi che mai avrebbe descritto quale fosse il marchingegno che permetteva tale ricambio. Entrambi mantennero il segreto e nulla si sa di più sull’argomento. Dell’impenetrabile Mastro Guglielmo, il De Marchi ci ha lasciato questo curioso ritratto: "Era homo di grandissima barba e folta e li passava la cintura mezzo palmo e se ne faceva le trezze intorno al capo, ma era homo di grande ingegno". Il resoconto dell’allora trentunenne esploratore prosegue, e ci narra che il giorno 15 luglio 1535 si immerse nelle acque del lago. La luce, data la profondità, era scarsa e la visibilità non era molta a causa della poca trasparenza delle acque. Si era denudato dalla cintola in giù poiché temeva che i panni si sarebbero potuti impigliare in qualche roccia rendendogli difficile, o addirittura impossibile, il ritorno in superficie. Attraverso quel vetro, tutto ciò che vedeva gli sembrava molto più grande, anche i pesci latterini, che invece sono molto piccoli. Ebbe, forse, quel tuffo al cuore che prende tutti i subacquei moderni alla prima immersione: i pesci appaiono grandissimi… molto più di quanto lo siano fuori dall’acqua. Cominciò ad osservare la nave più vicina alla riva, che era anche quella che giaceva a minor profondità. Si spostava lentamente sott’acqua camminando sullo scafo, e poté vedere che era molto grande. La lunghezza secondo la sua valutazione era di sessantaquattro metri e la larghezza di venti. Una nave molto grande, sia per i tempi che per il sito dove si trovava. Il legno, protetto dal fango, era ben conservato anche se aveva quasi duemila anni. Era coperta parzialmente dalla melma del lago, si intravedeva la ruota e parte della poppa, si intravedevano gli scalmi; molti erano i danni provocati dai tentativi di recupero precedenti. L’unica nota vivace di quest’avventura è che i latterini che popolano il lago, poiché l’esploratore, come abbiamo detto, si era immerso nudo al di sotto della cintola, gli andavano a mordicchiare in quelle parti del corpo che ognuno può comprendere, nonostante il De Marchi cercasse di allontanarli con le mani. Ma sentiamo le sue stesse parole: "... mi cingevano intorno dove io ero senza braghe e mi andavano a piccare e io con le mani li dava, ma non curavano nulla, come quelli che erano in casa loro". Corse quindi ai ripari; si mise i calzoni e dopo essersi rituffato più volte cercò di cingere la nave con fasce e cordami, nella speranza, con lo sforzo di molti argani, di poterla strappare dal fango e riportarla in superficie. Tutto fu inutile. Le corde si ruppero; quanto a lui, lo sforzo gli provocò un’emorragia dalla bocca e dal naso finché, risalito in superficie, si accorse che il suo giubbone bianco era tutto rosso di sangue. L’avventura era finita nonostante la volontà e il coraggio. E di questo si trattava e noi moderni, per rendercene conto appieno, dobbiamo immaginarci uomini del secolo XVI, ancora all’inizio delle grandi scoperte scientifiche, illuminati solo dalla luce del Rinascimento, rischiararsi di quello ed inoltrarsi verso il buio dell’ignoto. Era pari, quell’avventura, alle esplorazioni dello spazio che furono effettuate secoli e secoli dopo. In quella, come queste, l’uomo si lanciava in un elemento che non era il suo, vincendo la propria legittima paura dell’ignoto, tagliandosi dietro di sé molte delle possibilità di rientro in caso che l’esplorazione fallisse

Il terzo tentativo di recupero.
Dai primi due tentativi di recupero delle navi passarono quasi tre secoli prima che qualcun altro ne tentasse un terzo. E fu una vera fortuna, visti gli scarsi mezzi tecnici usati fino ad allora ed ancora i soli ad essere a disposizione - salvo una lodevole buona volontà che, però, non poteva certamente sostituirli. In ogni caso quel gran darsi da fare intorno, sopra e sotto il lago di Nemi aveva risvegliato l’interesse dei ceti più colti del tempo, che furono vieppiù invogliati al recupero delle navi, a quello che v’era sopra e a quello che si supponeva vi fosse dentro. Si era sicuri, ormai, che si trattasse di due imbarcazioni. Si era certi che vi fossero sopra delle costruzioni di tipo terrestre, come edifici, colonne, statue, addirittura pareti e pavimenti in marmo pregiato e mosaici finemente lavorati. Così la fantasia riprese a correre favoleggiando di tesori sommersi, di monete d’oro e di monili preziosi. Se la parte più dotta della popolazione di quei tempi pensava di riscoprire un po’ della storia romana, quella meno dotta pensò di recuperare la parte più... preziosa, se ve ne fosse. Così i pescatori del lago, che ormai avevano visto qual era il luogo esatto dove erano sommerse le navi ed avevano visto che non era impossibile raggiungerle, superate tutte le paure, cominciarono, anzi continuarono con più lena di prima la loro spoliazione. Questa fu documentata anche dalla cronaca di Padre Casimiro che ne parla nelle sue "Memorie sui conventi francescani" nella seconda metà del Settecento. Il religioso dice di legnami, grossi chiodi di rame, lamiere di piombo, tegole di rame, cose tutte che sono continuamente strappate alle navi, che subiscono così più danni dalle rapine degli uomini che dalle ingiurie del tempo. Tuttavia, pur essendo uomo colto, il Padre Casimiro incorre in grosse inesattezze, alimentate probabilmente sia da tutte le dicerie e racconti fantasiosi che si facevano sull’argomento, sia anche dal desiderio e dal piacere di fare asserzioni più o meno dotte sebbene in mancanza di elementi certi. Ma facciamo parlare l’autore stesso delle memorie:"Nel mezzo del lago l’Imperatore Tiberio edificò un palazzo, cui servivano di fondamento due navi gettate nel fondo dell’acqua, non altrimenti di quello che facessero nel secolo XV° il Conte Borso di Ferrara sul Po, Ludovico di Mantova sul Mincio ed i Principi Elettori sul Reno, come narra Pio II° (Silvio Enea Piccolomini) nei suoi Commentarii". Finalmente, nel settembre 1827, si tenta per la terza volta l’impresa del recupero delle navi. Il nobile cavaliere Annesio Fusconi, dopo aver studiato i tentativi dei suoi precursori, pensa di servirsi della "campana di Halley" alla quale aveva apportato alcuni perfezionamenti in varie parti, munendola, fra le nuove apparecchiature, di una pompa per l’afflusso dell’aria al suo interno. Ne costruisce una abbastanza grande nella quale possano prendere poste otto marangoni, quei famosi nuotatori genovesi. Oltre a questo fa apprestare una piattaforma galleggiante, piuttosto ampia, idonea a sostenere la campana ed a calarla in acqua mediante quattro argani. Il cavalier Fusconi doveva essere, oltre che un uomo che si interessava alla storia antica, anche una persona avveduta ed attenta alle relazioni sociali. Questo si può evincere facilmente dal fatto che, dopo aver costruito un magnifico palco ed un ponte per salirvi sopra, "vi invitò gli spettatori più illustri ed il corpo diplomatico oltre che tutta la nobiltà romana e forestiera che, numerosa, vi accorse". Poiché, però, le fonti ci informano che dell’impresa fu testimone una moltitudine innumerevole di persone, dobbiamo arguire che anche il popolo fosse presente in gran numero a guardare dalla riva del lago. Forse fu solo il richiamo di curiosità per l’avvenimento mondano; ma ci piace pensare che l’interesse per la cultura si stesse, piano piano, diffondendo presso il popolo minuto, che certamente non era stato così cortesemente invitato. E così il giorno dieci settembre dell’anno 1827 si diede inizio al tentativo di recupero della nave che era più vicina alla riva: fu immersa la campana con dentro gli otto marangoni che però, una volta sul fondo, non poterono asportare grandi quantitativi di materiale. Allora furono legate alcune gomene agli argani e, nella speranza di poter strappare al lago tutta o almeno parte della nave, si avvolsero delle cime allo scafo di quella. A forza di braccia si misero in tiro gli argani, ma ancora una volta le corde si ruppero e l’impresa fu rimandata anche a causa di un gran temporale sopraggiunto. Evidentemente Giove Pluvio, piuttosto preoccupato, era intervenuto da par suo. Tuttavia era stato portato sulla zattera abbastanza materiale del quale il Cavalier Fusconi compilò, nelle sue Memorie, un preciso elenco: "due tondi di pavimento uno di porfido orientale e l’altro di serpentino, pezzi di marmo di varie qualità, smalti, mosaici, frammenti di colonne metalliche, laterizi, chiodi, tubi di terracotta ed infine travi e tavole di legno". Tali travi e tavole furono, ma solo in parte, utilizzati per ricavarne bastoni, canne da fumare (cioè bocchini da sigaro) ed ancora tabacchiere, segretini, cassettine da viaggio, libretti, ricordini ecc..... L’impressione che ci eravamo fatti analizzando il comportamento del cavalier Fusconi, quando apprendemmo del famoso palco mobiliare nonché diplomatico, ci sembra ora confermata dall’utilizzo che fece delle travi e delle tavole dell’antica romanità per ingraziarsi la romanità del suo tempo. Ma tant’è, quando una persona è avveduta alle relazioni sociali... Al termine del suo resoconto il Cavaliere lamenta di non aver trovato "un ricco amatore vago di siffatte peregrinità il quale incoraggisca il volenteroso autore della macchina a nuovi più felici esperimenti". Serviva evidentemente uno sponsor... Ma fortunatamente, dice uno storico, la sua voce non viene raccolta. In ogni caso, e qui dice il contemporaneo, il Fusconi era, con tutta evidenza, sinceramente interessato anche al proseguimento dell’impresa del recupero delle navi. Secondo il Borghi "gran parte degli oggetti estratti dal Fusconi furono, per consiglio dell’Accademia di S. Luca, acquistati dall’eminentissimo cardinale Camerlengo pei Musei Vaticani; ed i rimanenti oggetti furono conservati, per conto del Fusconi stesso, nei magazzini di uno dei palazzi del principe Torlonia duca di Ceri. È però notevole il fatto che, per quanto si sia cercato, di questi oggetti null’altro si è rinvenuto se non un frammento di trave con chiodi, de’ quali il Fusconi scrisse che erano ‘con testa dorata’ oltre a due lunghe travi di larice, unite da chiodi di ferro, ed alcuni tondini di porfido e di serpentino". Il Montoni, da parte sua, raccontava che il principe don Alessandro Torlonia mostrava con orgoglio nel suo palazzo, che occupava l’area dell’attuale edificio delle Assicurazioni in Piazza Venezia, un gabinetto di stile gotico, il cui pavimento era formato di tavoloni in terracotta provenienti dalle navi nemorensi, e parecchi arredi costruiti col legname recuperato nel 1827, come pure risulta dalla memoria citata. Di tutto questo è fatta precisa menzione da Guido Ucelli che, con molta esattezza, ci racconta del recupero delle navi, dei materiali ritrovati e della tecnica di costruzione dei natanti. Dobbiamo essere grati a quello studioso che ci ha trasmesso tutta la storia di quest’avventura che, altrimenti, sarebbe andata persa, come perse sono le due antichissime imbarcazioni.

Il quarto tentativo di recupero
Era molto tempo, secoli ormai, che ci si affannava, con mezzi empirici sebbene sempre più perfezionati, a cercare di estrarre dal Lago di Nemi quei reperti che era possibile recuperare. L’eco di quei tentativi finalmente arrivò sia alle finestre del Ministro della Pubblica Istruzione che a quelle dei Principi Orsini, risvegliando l’interesse non solo di un privato, se pur nobile, come era accaduto fino allora, ma soprattutto dei Pubblici Poteri. Si vuol sottolineare che, a quel tempo, chiunque avesse abbastanza denaro e volesse dedicarsi alla raccolta di cimeli del passato poteva, indisturbato, iniziare scavi e ricerche nel proprio fondo divenendo proprietario di tutto ciò che riusciva a trovare e disponendone poi a proprio piacimento. Il che portò alla polverizzazione di buona parte di importantissimi reperti della nostra storia antica che andarono ad arricchire, all’estero, numerosi musei e raccolte private. Tuttavia è doveroso precisare che quei personaggi, portandosi a casa loro quei tesori, non commettevano alcuna illegalità nei nostri confronti. Si avvalevano soltanto della carenza delle leggi italiane che nulla stabilivano sull’argomento. È utile, a questo punto, accennare al diritto di proprietà nei secoli passati. In epoca storica la proprietà era individuale e si confondeva con la sovranità, nel senso che il "pater familias" era l’unico soggetto che potesse essere titolare di quel diritto. Dalla definizione romana dell’istituto si evince che nell’antica Roma il cittadino libero avesse la possibilità di usare e di disporre della cosa senza limitazione alcuna. "Usque ad sidera, usque ad inferos" diceva l’orgoglioso quirite, ed affermava con questo che il suo diritto di proprietà si estendeva fino al cielo e fino agli inferi. I secoli passano e questi concetti cambiano lentamente in conseguenza dei contatti con altri popoli, con altre civiltà, con altri modi di concepire il diritto di proprietà. Uno sgretolamento del concetto di proprietà si verifica nel Medioevo, ove è soffocato da oneri ed obblighi. Ciò sia per l’influenza del mondo germanico (in cui il nomadismo e l’economia pastorale avevano portato ad una forma di godimento collettivo dei beni), sia per il fatto che il concentramento della proprietà terriera in pochissime mani costrinse i feudatari a cedere parte delle facoltà inerenti al diritto di proprietà ad altri individui meno potenti ma più numerosi. Il fondamento del diritto muta egli stesso: esso non è più in funzione dell’individuo, ma della collettività. La Costituzione Albertina, dopo avere affermato che tutte le proprietà sono inviolabili, precisa che, quando l’interesse pubblico legalmente accertato lo esiga, si può essere obbligati a cederle in tutto o in parte. Il nostro codice all’art.832 dice che il proprietario può godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dalla legge. Questo volo rapidissimo ci è stato utile per capire come, nei secoli, il diritto di proprietà si sia lentamente evoluto da rapporto esclusivo e rigido tra la cosa ed il suo proprietario, a rapporto che debba tenere conto anche degli altri consociati ed, infine, anche dello Stato. Ogni frutto ha il suo tempo di maturazione e, piano piano, ci siamo maturati anche noi, sebbene con un certo ritardo nei confronti di altri popoli più solleciti a considerare i propri reperti antichi non alla stregua di souvenirs, ma come le grandi pietre con le quali era stata costruita la loro storia. Questa acquisita maturità del cittadino, trainata dai ceti più colti e perciò più sensibili, fece il miracolo di far convergere l’interesse di un principe aperto alle romane cose con l’attenzione del Ministero della Pubblica Istruzione. La casa Orsini varò una campagna di ricerche diretta dall’antiquario Eliseo Borghi con il consenso di quel Ministero. Il miracolo era avvenuto ed il dado era tratto: il pubblico ed il privato erano, finalmente, uniti per riscoprire la storia di Roma. Per fortuna la tecnica aveva progredito e ci si potè avvalere della collaborazione di un provetto palombaro, che esaminò accuratamente la nave più vicina alla riva e tornò alla superficie con una ghiera in bronzo raffigurante la testa di un leone che stringeva, tra le fauci, un anello. Si trattava, come fu poi identificata, della ghiera di un timone. Era il 3 ottobre 1895 e, con legittimo orgoglio, il Borghi disse che quella data la si sarebbe dovuta ricordare nella storia delle ricerche archeologiche. Si divelsero dallo scafo le famose "protomi ferine" dalla forma di teste di felino, che stringevano tra i denti anch’esse un anello. E poi, ancora, rulli sferici (dei quali si dirà quando parleremo della avanzatissima tecnica, che avevano i romani, in tema di costruzioni navali), rulli cilindrici (che fanno parte anch’essi della stessa tecnica), paglioli, cerniere, filastrini in bronzo, tubi di piombo, ancora tegole di rame dorato, laterizi di varie forme e dimensioni, frammenti di mosaici con abbellimenti in pasta di vetro, lamine di rame ed altro. Il 18 novembre viene poi individuata la seconda nave, dalla quale si recupera altro materiale, fra cui un oggetto molto strano: la decorazione del sostegno di uno dei quattro timoni raffigurante un avambraccio ed una mano. Se ne conoscevano poche altre di queste strane cose. Erano simboli "apotropaici": servivano ad allontanare le influenze magiche e maligne. Se ne trovarono a volte nei sepolcri, ed il loro nome deriva da una parola greca che significa "allontanante". Gli antichi credevano che dalla punta delle dita emanasse un fluido che avesse il potere di difendere. Una manus panthea fu rinvenuta presso Mantova. Questa mano aveva i fori per essere fissata su un’asta, e come una bandiera precedeva un manipolo di militi quale mezzo di difesa e simbolo allo stesso tempo. Siamo sicuri, noi moderni che siamo andati sulla luna, che i sensi siano solo cinque? E se i popoli antichi avessero saputo, avessero intuito che ve ne è qualcun altro? Che dire dei guaritori che con la sola apposizione delle mani tolgono alcuni malanni di fronte ai quali la medicina dotta ed ufficiale s’era arresa? E gli ipnotizzatori che spingendo le mani e le dita verso gli astanti li costringono a vedere cose che non ci sono; oppure li costringono ad un comportamento al di fuori della loro volontà? Forse qualcosa emana dalla punta delle dita... Il concetto credo che sia stato espresso anche nella Cappella Sistina: il dito di Dio che trasmette l’energia vitale all’uomo. L’uomo che con una candela in mano, sulla porta dell’infinito, si sforza di guardare lontano, ma riesce solo ad illuminare, a stento, la punta dei suoi piedi. Gli antichi sapevano qualcosa più di noi? È uno dei tantissimi interrogativi che riguardano il passato. Ma andiamo avanti. Un altro oggetto attrasse attenzione e curiosità: la testa di una Medusa. Racconta Carlo Montani presente al ritrovamento, "usciva dalle acque azzurre del lago, tra le braccia del palombaro che l’aveva divelta dallo scafo affondato. La bella testa di bronzo, grondande acqua, pareva spargere lacrime di dolore per la sua pace di secoli inopinatamente turbata". Per quanto riguarda le strutture navali, lo stesso Borghi scrive: "insieme con tutti gli oggetti preziosi di sopra menzionati, fu estratta dal lago una quantità grandiosa di legname, in gran parte costituita di bellissime travi, in ottimo stato di conservazione. Era quello un materiale che, quanto a valore storico, presentava un interesse forse maggiore dei singoli oggetti d’arte riportati alla luce. Erano più di 400 metri di travi, che sarebbero servite come parti principali nella eventuale ricostruzione di quei monumenti e che, almeno, avrebbero rappresentato le linee fondamentali per la ricostruzione ideale di essi. Ma quelle travi —prosegue il Borghi— quei preziosi avanzi che il fato aveva voluto nei secoli conservare e poi rendere alla luce, furono lasciati a marcire sotto la pioggia ed a polverizzarsi sotto i dardi cocenti del sole, onde non resta neppure il diritto di attribuire ai barbari atti degli abitanti del luogo se, dopo i guasti delle intemperie, misero mani anch’essi sugli avanzi di quelle grandi memorie per farne legna da fuoco." Per fortuna la maggior parte del prezioso materiale recuperato dal Borghi fu acquistato dal governo per il Museo Nazionale Romano. Tuttavia il Montani afferma che non poco materiale, giudicato meno importante, andò perduto nelle mani di collezionisti privati, mentre qualche cimelio di grande importanza, come la testa di Elios, che pare trovasse posto a prua della nave, dopo qualche tempo che il Borghi la custodiva nel retrobottega del suo negozio di antiquario, andò persa e non si seppe mai che fine avesse fatto. Dicono gli abitanti del luogo che una statua femminile, forse di Diana o di Drusilla, ed altre otto statuette, dopo essere stata nascosta in un fascio di rami, fu trasportata per un ripido sentiero e non se ne seppe più nulla. È probabile che sia quella che fa bella mostra di sé al British Museum. Una statuetta, questa volta di Eros, alberga nel Museo dell’Ermitage dove, dice il Waldhauer, pervenne dopo essere stata dapprima portata in Inghilterra. Si ricordano pure un simpulum —un mestolo— di bronzo conservato al Louvre ed un grande elmo monumentale conservato a Berlino. Tutto questo saccheggio, che è durato secoli, ha finalmente termine con i recuperi dell’antiquario Borghi. Arriverà lo Stato a difendere ed a conservare i pezzi della nostra storia, sottraendone ai privati la disponibilità ed avocando a sé il diritto di ricerca e di conservazione. L’unica consolazione nei riguardi degli oggetti esposti nei musei esteri è che sono circondati da quel rispetto e dal quel riguardo che, forse, non hanno trovato da noi; e che la nostra storia e la nostra civiltà parlano attraverso loro. Ambasciatori di un grande passato.

L’intervento dello Stato
Era il 1895. Lo Stato Italiano intervenne per raggiungere un obiettivo che oggi sembra ovvio ma che allora era una novità: la salvaguardia, il recupero e la conservazione dei reperti antichi. Al fine, quindi, di impedire ai privati l’ulteriore dispersione di quelle cose antiche, il Ministro della Pubblica Istruzione, Guido Baccelli, sollecita all’Ammiraglio Morin, Ministro della Marina, la sua collaborazione. Più precisamente gli chiede l’intervento di un ingegnere navale e di un bravo palombaro per effettuare un’accurata ispezione e stabilire il modo migliore per recuperare quelle costruzioni sommerse nel lago. Interviene così il Genio Navale, che incarica sia il Tenente Colonnello Ing.Vittorio Malfatti che un espertissimo palombaro, il nome del quale non è pervenuto fino a noi. Quest’ultimo, dopo molte immersioni e diligenti accertamenti, permette all’Ing.Malfatti una serie di identificazioni, di rilievi e di studi che questi riunisce in un interessante libro a carattere tecnico. In questo volume l’ingegnere propone anche cosa si dovesse fare per recuperare le navi. Egli relaziona che la prima nave dista dalla riva circa cinquanta metri e precisa che è quella esplorata dall’Alberti, dal De Marchi e, probabilmente, dal Fusconi. È da questa che il Borghi trasse il suo ricco bottino ed è adagiata sul fianco sinistro ad una profondità da cinque a dodici metri. Questa strana profondità è spiegabile per la forte ripidità con cui il fondo del lago vulcanico, conico, scende verso il centro, e la nave vi riposa avendo una estremità verso la riva e l’altra verso il centro. Emergono dal fango solo le estremità degli scalmi, e sono evidenti i danni causati dai ripetuti tentativi di recupero che ne hanno strappato qui e là intere parti. Lontano duecento metri, ad una profondità da quindici a venti metri circa, giace la seconda nave, anch’essa adagiata sul lato sinistro ed anch’essa semi coperta dal fango. È interessante la tecnica usata per il rilevamento delle dimensioni di entrambe: si riportarono alla superficie dell’acqua i contorni delle strutture per mezzo di piccoli gavitelli assicurati dal palombaro ai profili delle navi. L’Ing. Malfatti analizza anche il legname, i bronzi e le paste vitree al fine di stabilirne lo stato di conservazione. Si vuole sottolineare, a questo punto, la meticolosità e la competenza con le quali furono fatte queste ricerche per dimostrare, se ve ne fosse ancor bisogno, quale sia la differenza con quelle che fino ad allora le avevano precedute. Tuttavia i tempi non erano ancora maturi: il grande pubblico non era coinvolto dal punto di vista culturale e, salvo pochi spiriti eletti interessati al lato scientifico, quei pochi che la seguivano erano sollecitati solo dalle storie più o meno fantastiche di ricchi tesori. Inoltre c’è anche da considerare che l’Italia era unita da pochi anni, i problemi erano enormi, le soluzioni lontane e la vita dura; ed il popolo minuto, vuoi perché assorbito dalla cura di sopravvivere, vuoi per scarsa cultura, era comprensibilmente piuttosto lontano dall’interessarsi fattivamente delle Navi di Nemi. Nonostante questo vi furono campagne di stampa e scritti sull’argomento che tentavano di trascinare l’adesione della gente a prendere parte al problema del recupero di quelle navi, ma…..non lo si sentiva ancora come un problema comune. Si parlò addirittura di "regge natanti imperiali ricolme di ogni preziosità" e, mentre si favoleggiava di scenografiche visioni, il pubblico, il grande pubblico, si allontanava sempre più dalla vera essenza della questione. Vi furono alcune proposte di recupero da parte di vari personaggi; alcune erano studi seri e fattibili, molte altre solo fantasticherie dalla realizzazione impossibile. Passarono così molti anni che videro il fiorire di scritti ed opuscoli che descrivevano quelle imbarcazioni con molta fantasia riaccendendo le leggende del lago di particolari fantastici e romantici. Vi furono delle ricostruzioni così dette "ideali" di quei natanti e si aggiunsero e crearono particolari che erano di pura fantasia. Finalmente nell’anno 1926 si torna a trattare del recupero di quelle navi con serietà ed impegno. Si crea una Commissione di Studio affidandone la presidenza al Senatore Corrado Ricci, che vi infonde il suo entusiasmo sereno e fattivo, tutto teso al conseguimento del risultato finale. Si esaminano studi e progetti scegliendoli e valutandoli con criteri selettivi, escludendo i tanti che propongono soluzioni impossibili da realizzare, quando addirittura di fantasia. Infine la Commissione ritiene idoneo il metodo di lavoro proposto dal Malfatti: l’abbassamento del livello del lago fino a far emergere le due navi. Il 9 aprile 1927, in un discorso alla Reale Società Romana di Storia Patria, il Capo del Governo, Benito Mussolini, annuncia la decisione di recuperare le due grandi navi sommerse. Ricorda la grandezza di Roma, della sua storia, della sua civiltà. Afferma come questo sia un debito d’onore verso la cultura classica e verso la dignità del nostro Paese. Riassume i lavori della Commissione di periti nel campo delle antichità classiche e dell’ingegneria idraulica che, sotto la guida del Senatore Ricci, ha lavorato per alcuni mesi studiando ed esaminando i numerosi progetti che le venivano sottoposti. Parla di come sia previsto lo svuotamento parziale del lago e di come si effettueranno indagini archeologiche sulle navi allorché saranno all’asciutto. Tali ricerche saranno estese anche alle loro immediate vicinanze al fine di recuperare eventuali reperti caduti fuori bordo. Infine si svuoteranno e si solleveranno gli scafi che saranno trasportati e sistemati in un museo appositamente costruito nella parte pianeggiante della sponda. Questo discorso è l’inizio ufficiale del coinvolgimento dello Stato che si assume l’iniziativa e l’esclusiva del recupero di quelle due antiche navi romane. Antiche e sfortunate navi romane.

La dea, il tempio, il sacerdote e l’emissario
Era dunque deciso che si dovesse svuotare parzialmente il lago di Nemi per far riemergere le due antiche navi romane. Ma non scavando, come si era proposto, un cunicolo che riversasse le acque del lago di Nemi nel lago Albano, che era ad un livello più basso, ma utilizzando l’antico emissario affinché le portasse al mare. A questo punto, però, è necessario sospendere il racconto del recupero delle navi romane per parlare dell’antico emissario che avrà l’importantissima funzione di abbassare il livello di quello specchio d’acqua. Torneremo indietro nel tempo. Torneremo all’antica Roma e anche ad un tempo anteriore della fondazione dell’Urbe. Sembra quasi che questa gloriosa città ci voglia richiamare a parlare di lei, come se si fosse avveduta che, nello slancio di trattare di cose, di storie e di imprese moderne, ne avessimo perso il ricordo e, spintici troppo avanti nei secoli, fossimo dimentichi che ad essa tutto si debba riferire. Ebbene, sulla riva settentrionale del lago di Nemi esisteva, ed esiste ancora, il santuario di Diana, che vanta origini antichissime: sicuramente anteriori al V secolo a.C. e che fu frequentato fino al IV secolo d. C.. Era sede del culto di quella dea e del rito cruento della successione del "rex nemorensis", suo sacerdote. Parleremo dell’antica divinità, del suo tempio, del suo sacerdote nonché della relazione esistente fra tutto questo ed il famoso emissario del quale abbiamo trattato più indietro. Era Diana uno dei principali numi della Lega Latina, cui le città confederate prestavano un culto comune. Il suo centro culturale, sin da epoche immemorabili, sorgeva, appunto, sulla sponda settentrionale del lago di Nemi, nel mezzo di un bosco sacro. Poi, quando Roma prevalse sulle città di quella Lega, volle annettersi tale culto seguendo la sua politica di acquisire le credenze religiose dei popoli vinti, ed eresse alla dea, durante il regno di Servio Tullio, un tempio sul Colle Aventino. Diana era la divinità della vita, della caccia e dei boschi, ed era anche invocata dalle donne come protettrice dei parti, quando, in occasione di una festa alle idi di Agosto, con solenni rituali si recavano in pellegrinaggio notturno al Santuario di Nemi. Alle pareti del tempio ed anche sulle colonne e sugli alberi del bosco sacro erano appesi doni, tavolette votive, "ex voto" per grazia ricevuta e festoni dedicati alla dea. Gli schiavi erano a lei devoti. Era messa in relazione con la luna e le sue fasi, tanto che fu detta "triforme". Proteggeva le strade e i crocicchi e per questo era detta, anche, "trivia". Presiedeva sia alle pratiche magiche che agli inferi ed era identificata con la dea greca Artemide. Quanto ai suoi templi, il multiforme, antichissimo e venerato nume, ne aveva numerosi in tutto il mondo, ma il più antico e venerato era proprio quello di Nemi. Il santuario era situato nel bosco (il "nemus", da cui prese il nome l’odierna Nemi) e fu più volte rimaneggiato ed ampliato nel corso dei secoli. È costruito nella parte pianeggiante a Nord del lago, proprio sotto all’odierno paese. Di quel tempio parlano molti autori antichi come Catone, Virgilio, Orazio, Ovidio, Plinio, per citare solo i più grandi, e ciò sta a dimostrare quanto fosse importante, conosciuto e frequentato. Sono rimasti recinti e colonnati, nicchie e terrazze, muraglioni, scalinate ed ambienti chiusi nei quali si trovarono interessantissimi reperti ed "ex voto" in terracotta. Vasi di marmo ed ancora numerose statue di varie dimensioni, tra cui una testa colossale della dea. Diciamo, ora, del "rex nemorensis", cioè del sacerdote di quel tempio. Era, per tradizione, uno schiavo fuggitivo che succedeva al suo predecessore dopo averlo ucciso in duello; non prima però di aver strappato un ramo di vischio da un albero di quercia ed averglielo consegnato. Questa cruenta successione ha una giustificazione nel fatto che il sacerdote nemorense, essendo la personificazione della natura boschiva e della fertilità, che era uno degli aspetti di Diana, doveva essere sempre nel pieno delle forze, non si doveva ammalare e non doveva nemmeno morire di vecchiaia. Solo uno schiavo in fuga poteva quindi accettare e desiderare un simile sacerdozio. Solo un uomo già fuori della società, che non era titolare di alcun diritto, e anzi in reale pericolo di vita, poteva cercare di risolvere la sua esistenza ed ottenere asilo divenendo sacerdote di una dea in un tempio che comportava implicitamente una morte certamente cruenta. Egli portava al suo predecessore un rametto di vischio. Un ramo che non nasceva direttamente dalla terra, ma si doveva strappare da una pianta che si protendeva verso il cielo. Una cosa, quindi, che stava tra cielo e terra; e che era diversa da tutte le altre, non appartenendo né alla sfera terrena né a quella divina. Il "rex nemorensis" presiedeva al continuo cambiamento della natura che si trasforma e rinnova continuamente col mutare delle stagioni. Durante quel periodo lo schiavo fuggito poteva vivere e pregare nel tempio con il cuore quasi tranquillo. Ma questo fintanto che un altro uomo, disperato ed in fuga com’egli era stato, si presentasse a lui con un ramo di vischio… e la morte di uno dei due doveva essere un vero e proprio sacrificio, poiché il sangue del vinto doveva fecondare la terra. Questo rituale così feroce e stranissimo aveva origini che si perdono nell’antichità più remota. Questo sacerdozio insanguinato rimase fino all’età imperiale inoltrata, e Svetonio narra che Caligola, ritenendo addirittura che il sacerdote nemorense dell’epoca fosse in carica da troppo tempo, lo fece uccidere da un successore più forte. Nel II secolo d.C. il duello per la conquista di quell’altare divenne simbolico, mentre il culto di Diana, che si andava affievolendo sempre più, durò poco oltre l’inizio del cristianesimo. Il suo tempio fu pian piano dimenticato. Non più preghiere, non più processioni né canti di donne, e la terra, l’incuria e l’oblio lo ricoprirono completamente nel corso dei secoli. Finalmente siamo arrivati a parlare dell’emissario che, ricordiamo, era stato scelto per far defluire le acque del lago di Nemi e riportare le navi romane alla luce. Quest’opera ha veramente dello straordinario sia per le difficoltà che doveva superare l’antichissimo scavatore, sia per i mezzi tecnici allora a disposizione, sia per l’audacia della decisione che si riprometteva di far defluire quelle acque attraverso la campagna, fino al mare distante trenta chilometri. E tutto questo, ecco la cosa straordinaria, prima della fondazione di Roma; forse addirittura al tempo della civiltà etrusca! Il perché di questa opera ciclopica era la necessità di non far giungere l’acqua fino al tempio che sorgeva, ricordiamo, nella parte pianeggiante della riva volta a settentrione. Nella più remota antichità il livello del lago era superiore all’attuale, e piogge e fonti a volte facevano sì che il terreno pianeggiante quasi fosse sommerso, e il tempio spesso restava prigioniero ed inaccessibile in quella che diventava una perenne palude. Così, con i poveri mezzi di allora, si costruì una galleria della lunghezza di 1.653 metri attraverso la durissima roccia che incorniciava quel lago vulcanico. La prima parte della galleria è interrotta da vari diaframmi di pietra che funzionavano da filtro al fine di trattenere fuori del cunicolo eventuali materiali che potessero ostruirlo. Inoltre vi sono vari pozzi verticali adibiti all’areazione, similmente ad altre opere dell’antica Roma, che sbalordiscono noi moderni per la loro notevolissima funzionalità e perfezione tecnica. Tale era il manufatto che si volle rimettere in ripristino per realizzare lo svuotamento parziale del lago di Nemi. La sintetica descrizione di quell’opera antica si è resa necessaria per ben comprendere ma soprattutto apprezzare nella pienezza della sua grandiosità, sia l’opera stessa che l’utilizzo moderno che, dopo qualche millennio, se ne volle fare. Detto ciò, nel prossimo capitolo, narreremo come si riuscì nell’impresa, usando l’antichissima opera e la tecnica moderna.


Si riportarono alla luce le due antiche navi romane abbassando il livello
del Lago di Nemi
L’entusiasmo era vivissimo e l’opera veramente grande: riportare alla luce due antiche navi romane abbassando il livello del Lago di Nemi facendone defluire le acque attraverso una galleria lunga 1.653 metri scavata nella lava alcuni millenni prima! La notizia aveva già fatto il giro del mondo. Era stata riportata dai giornali di tutti i Paesi e gli ingegneri delle maggiori potenze navali (prima fra tutte l’Inghilterra, che possedeva una grande flotta sia commerciale che da guerra) erano molto interessati a conoscere quali fossero le soluzioni tecnico-marittime degli antichi romani, che avevano navigato per tutto il Mediterraneo. Fu necessario esaminare a fondo l’emissario che era in condizioni molto più precarie di quanto si pensasse. L’entrata era difficile e si dovevano eseguire diversi lavori per renderla più accessibile. Andando avanti nella galleria ci si avvide che era ostruita da frane e da depositi rocciosi che non avrebbero permesso il deflusso dell’acqua nella misura che era stata prevista nei calcoli degli ingegneri. Era quindi necessario ispezionarla tutta al fine di rendersi conto esattamente dello stato generale dell’intera antichissima opera. Due uomini coraggiosi si offersero di percorrerla nell’intera lunghezza: erano Augusto Anzil e Mafaldo Corese, che camminando con l’acqua che in certi punti gli arrivava al collo, spostandosi a tratti sulle mani e sulle ginocchia, affondando nella melma e tra sassi grandi e piccoli che impedivano loro il movimento, e insomma rischiando mille volte la vita, riuscirono ad uscire dalla parte del lago. Dal racconto dei due uomini si dedusse che sarebbero stati necessari molti lavori per potersi servire di nuovo di quella galleria, la cui costruzione era cominciata contemporaneamente sia da una parte che dall’altra. Questo si potè desumere osservando i segni lasciati sulla roccia dagli attrezzi di scavo che, essendo contrapposti, stanno a dimostrare che due squadre lavorarono una ad incontrare l’altra. Ma lasciamo che l’ingegnere Augusto Biancini (presidente del Comitato Industriale Scoprimento Navi Nemorensi, costituito da varie società, che eseguirà i lavori di prosciugamento) parli così nella sua dotta relazione a proposito dell’emissario del lago di Nemi: "Le incisioni, tutt’ora visibili, lasciate sulla roccia dagli arnesi a punta adoperati, attestano il lavoro duro, paziente ed estremamente penoso che gli schiavi hanno dovuto compiere, obbligati a lavorare raggomitolati od in posizione orizzontale e con limitatissima possibilità di movimenti. L’incontro è documentato dalla opposta direzione delle incisioni, ancora nettamente visibili, lasciate sulla roccia dagli utensili di lavoro ed è stato raggiunto per via di tentativi guidati, verosimilmente, da segnali acustici. In tal modo si sono raccordati i due avanzamenti, che si trovano a divergere fra loro di circa quattro metri in senso planimetrico e di circa due in senso altimetrico. Errore certo non grave, quando si pensi ai mezzi primitivi che, allora, si possedevano per tracciare e mantenere le direzioni di avanzamento e soprattutto quando si pensi che accade, talvolta, anche oggi di riscontrare nelle nostre gallerie errori non molto minori, malgrado la perfezione degli strumenti e dei metodi moderni". Fu addirittura trovata in una nicchia una piccola lucerna ad olio in terracotta che aveva illuminato la fatica di quegli uomini. Quanta fu l’emozione nel ritrovare quel povero oggetto che era stato testimone di tale avventura e di tanto sudore. Se le cose potessero parlare! E quanto sa essere grande questo piccolo uomo che, con mezzi poverissimi, non teme di intraprendere opere grandiose che resteranno a parlare di lui ben dopo la fine della sua esistenza. Ma i millenni non erano passati invano, e si dovette rimediare ai guasti del tempo ristrutturando e sistemando la galleria. Il Ministro dei Lavori Pubblici adoperò tutta la potenza dei mezzi allora disponibili: dagli argani elettrici alle perforatrici pneumatiche, agli esplosivi; tutto questo pur tenendo conto non solo del fine ultimo cui doveva servire l’emissario, cioè il parziale svuotamento del lago, ma anche della necessità di non stravolgere, con i lavori eccessivi, l’integrità del monumento. Il Capo del Governo era regolarmente informato dell’andamento dei lavori con rapporti che gli pervenivano ogni quindici giorni. Nel mese di settembre 1928 i lavori di sistemazione furono portati a termine, ed il primo ottobre se ne effettuò il collaudo dopo un’ulteriore ispezione di alti funzionari del Ministero dei Lavori Pubblici. Raccontano coloro che ebbero la fortuna di essere presenti che, appoggiando l’orecchio alla roccia "si sente lontano il rombo dell’acqua scrosciante nel lungo speco ed all’improvviso il flutto ne esce e precipita spumeggiando". Era lo spettacolo che si poteva ammirare allo sbocco della galleria in Valle Ariccia. Nel Lago di Nemi, intento, grandi pompe idrovore aspiravano le acque e le immettevano nella galleria dell’emissario ormai liberato dalle rocce e sedimenti che lo avevano parzialmente ostruito. Molti di quei testimoni scrissero la loro emozione al vedere le acque uscire dalla terra e correre verso il mare. Infine si era giunti, dopo speranze, dubbi ed un durissimo lavoro, alla certezza che l’opera avrebbe, finalmente, potuto realizzarsi; che la si stava già realizzando. Il 16 ottobre si verificò una leggera scossa tellurica, quasi che la natura si risvegliasse avvertendo gli uomini che, nonostante i lavori nel suo seno, le dovessero rispetto e qualcuno temé... un sinistro preavviso. Si dette incarico all’Osservatorio Geofisico di Rocca Di Papa, così vicino al Lago di Nemi, di tenere sotto controllo il territorio al fine di comunicare eventuali, ulteriori scosse. Fortunatamente, però, il sisma era locale e non se ne verificarono altri. Si poté, così, iniziare lo svaso del lago ed il 20 ottobre 1928 Mussolini, accompagnato dal Sottosegretario agli Interni e dai Ministri della Pubblica Istruzione e dei Lavori Pubblici, mise in funzione l’impianto idrovoro. La grande impresa, finalmente, iniziava. Quattro grossi tubi aspiravano l’acqua del lago e la gettavano nell’emissario. Dell’avvenimento si parlò in tutto il mondo e tutto il mondo volse lo sguardo verso Roma. È impossibile far cenno dell’ammirazione\invidia che generò l’impresa. Nessun altro aveva due grandi ed antiche navi romane da riportare alla luce, e pochi avrebbero avuto le capacità di farlo in maniera degna. Le grandi pompe idrovore lavoravano quasi in silenzio facendo abbassare il livello del lago in modo continuo anche se quasi impercettibile. Le acque venivano convogliate nell’antico emissario e, attraverso l’Ariccia, giungevano fino al mare. Ma l’opera non poteva limitarsi al solo abbassamento del livello del lago di Nemi. Molti altri problemi dovevano essere affrontati e risolti. A tal fine si riunì la Commissione Nemorense che era stata nominata dal Ministro per l’Educazione Nazionale, Giuseppe Belluzzo, della quale facevano parte il sen.Corrado Ricci, l’ing.Malfatti, l’ing.Biagini ed altri. Tale commissione decise la costruzione di una strada che doveva unire la città di Genzano al Lago. Inoltre pose le basi per la soluzione di altri problemi ugualmente necessari ed urgenti: provvedere alla costruzione di un riparo provvisorio per le due navi nonché tutti gli oggetti antichi che si sarebbero trovati e, successivamente, ad edificare un museo definitivo che potesse degnamente accogliere il tutto. È il caso di sottolineare che il Museo delle navi in questione sarà un’opera fatta "ad hoc", nel senso che è uno dei pochi ad essere stato costruito per ospitare uno specifico reperto. Altro problema che la commissione Nemorense doveva affrontare e risolvere era la tutela della splendida corona vegetale che arricchiva le sponde del Lago di Nemi. Per la sua conservazione venne, addirittura, licenziata una legge a carattere paesaggistico che tutelava quell’ornamento arboreo dichiarando di pubblica utilità quei magnifici boschi. Il Genio Civile, che per ordine del Consiglio dei Ministri costruiva la strada che va da Genzano al lago, si trovò ad affiancare parte di un’antica strada romana che si dipartiva dalla Via Appia e prendeva il nome di Via Virbia o Clivus Aricinus, lastricata con la tipica pavimentazione a lastroni a basole. Il nome di Viribio sembra derivi da vir e bios , dove vir originerebbe da virae, ossia dal nome delle ninfe degli alberi, che unito a bios prenderebbe il significato di vita vegetale, ovvero designerebbe una divinità campestre. Ebbene, questa strada si dirigeva all’Artemisio, da dove la Via dei Trionfi saliva al Tempio di Giove Laziale su quello che, oggi, si chiama Monte Cavo. Ma torniamo alle navi. Il 28 marzo 1929 affiorarono le più alte strutture della prima nave. I giornali e le radio di tutto il mondo fanno da eco all’importante ritrovamento ed ancora una volta il nome di Roma vola sulle ali del vento. La notizia viene immediatamente data dal Capo del Governo col seguente rapporto: "Oggi hanno cominciato ad affiorare i resti della parte poppiera della prima nave, di quella parte, cioè, che, per essersi trovata a minore profondità sotto il livello del lago, è stata più fortemente danneggiata dai tentativi di recupero compiuti nei secoli scorsi. Trattasi, per ora, di alcune travi e tavoloni rivestiti, questi ultimi, di lamierino di piombo, tuttora ben consistenti e fra loro connessi, dai quali spiccano lunghi chiodi che congiungevano le strutture rimaste con quelle strappate ed asportate anticamente. Ad acque chiare e tranquille ed a luce propizia, il che si verifica specialmente nelle ore del mattino, è dato di scorgere altre strutture, emergenti qua e là dal limo che le ricopre, il cui andamento lascia intravedere la maggiore ampiezza che assume la mole man mano che scende in profondità". Finalmente emerge la nave più vicina alla riva. Quella che giaceva ad una profondità minore e che, essendo recuperata per prima, sarà d’ora in poi chiamata prima nave. Oltre alle numerose fotografie che furono fatte allo scafo, da tutte le angolazioni; oltre alle foto scattate ai numerosi reperti che vi si trovavano sopra, siamo in possesso anche di un’accuratissima relazione dell’esplorazione della parte emersa della nave, stilata prima ancora di procedere alla rimozione dei reperti stessi. Tale relazione la dobbiamo al prof. Cultrera, Sovrintendente dell’epoca, che il 1° maggio del 1929 dette inizio ad una rigorosa serie di rilievi, di osservazioni e di fotografie che furono la base di partenza di tutti i successivi attenti studi di archeologia marina. L’importanza di quell’opera sta nell’aver fissato nel tempo il momento in cui la nave emergeva dalle acque per effetto dell’abbassamento del livello del lago. Quel momento era irripetibile, ed era quindi necessario documentarlo con la massima precisione. Come uno sciame di api attornia l’alveare, così la nave romana del lago di Nemi richiama un’immensa folla di visitatori attratti dall’eccezionalità dell’evento, fra i quali i giornalisti stranieri invitati dallo stesso Ministro della Pubblica Istruzione. Costoro, di fronte ad una nave di 2000 anni riportata alla luce del sole, scriveranno innumerevoli ed importanti articoli sull’argomento, esaltando la civiltà dell’antica Roma (e la bravura di quella moderna). Pochi giorni dopo, l’ing.Vittorio Malfatti - l’ufficiale del Genio Navale che, avvalendosi di un esperto palombaro, aveva compiuto accuratissime esplorazioni, diligenti accertamenti, importanti rilievi e studi sulle navi - ha la grande soddisfazione di guidare un folto gruppo di tecnici d’alto livello a visitare lo scafo da poco emerso. Di tale gruppo fanno parte i congressisti della Insitution of naval architects, alcuni Ammiragli della Real Marina inglese, ed ingegneri dell’industria navale britannica. Tutti costoro sfilano davanti alla nave ammirandola in ogni particolare, attenti alle spiegazioni dell’ing. Malfatti; ed affermano che questa impresa dona alla cultura mondiale un enorme contributo di conoscenza, unendo così la loro voce autorevole a quella dei giornalisti della stampa estera, che poco prima avevano narrato l’eccezionale evento sui quotidiani di tutto il mondo. Quei signori, giustamente orgogliosi di far parte della Marina più importante di allora, sia dal lato qualitativo che quantitativo, ebbero molto a meravigliarsi che alcune soluzioni tecniche ritenute di loro invenzione fossero già conosciute ed usate dai romani 2000 anni prima. Di tali ritrovati tratteremo nell’ultima parte, quando parleremo del museo. C’è un aspetto che, crediamo, non debba sfuggire a chi desideri ripercorrere quegli anni se vuol cogliere appieno il significato e le ragioni di tutta l’impresa. In Italia in quel periodo c’era una forte rivalutazione della Roma antica, e gli atti politici erano spinti dal desiderio di ripercorrerne in qualche modo la storia, cercando di eguagliarne il cammino. Si volle conquistare un impero, si vollero ingrandire i confini d’Italia, si volle, tra le altre cose, riportare alla luce quelle due antiche navi. Certamente la democrazia ha i suoi difetti, ma non crediamo che vi sia una forma migliore di governo. Dato per scontato questo - e resti ben chiaro - la dittatura a modesto avviso dello scrivente ha almeno la caratteristica di dare esecuzione immediata alla volontà di chi è al potere. In regime democratico si discute, si mette ai voti, si replica, si soppesa... le decisioni sono valutate e ponderate, ma il tempo passa e a volte i problemi hanno troppo lenta soluzione. Al contrario, un regime dittatoriale non ammette possibilità di discussione. La volontà è una, e basta. Quel che si vuole fare, viene subito fatto. Quando va male... va male. Ma stavolta andò bene. Ecco spiegato perché il recupero delle navi vi fu proprio in quel periodo. Non solo perché era possibile disporre finalmente di potenti pompe idrovore; ma perché quell’impresa faceva parte della politica generale del momento. Ed ecco perché l’ing. Malfatti volle e poté condurre personalmente, in veste di cicerone, quei tecnici d’alto livello e quegli Ammiragli inglesi a visitare ed ammirare quella vittoria archeologica. Ed ecce perché il Ministro della Pubblica Istruzione volle e poté invitare i rappresentanti della stampa estera. Gli studiosi e gli archeologi che da tanti anni si occupavano di quelle vestigia seppero cogliere il momento politico ed offrirono la loro collaborazione entusiasta. Molte aziende dettero gratuitamente il loro apporto tecnico, e tutte queste energie convergenti... salvarono le navi. Peccato che agli uomini non sia dato di guardare, nemmeno un poco, nel loro futuro. Se lo avessero potuto... forse avrebbero lasciato le navi dov’erano. Questo però nulla toglie all’eccezionale grandiosità dell’opera; è solo il triste commento di chi scrive pensando al drammatico destino cui le navi andarono incontro. Si istituì un libro dei visitatori sul quale si possono ancora leggere gli autografi dei personaggi allora più in vista, cominciando dalla famiglia reale e via via continuando con reali di altri Stati, ministri, scienziati, studiosi, e molte altre persone più o meno importanti che vollero vedere l’antico reperto. Per dovere di verità storica bisogna sottolineare che, se da una parte si osannava all’Impero, dall’altra il grosso pubblico fu deluso: si aspettava che dalle acque emergessere chissà quali tesori. Questo scontento latente e le mancate aspettative a riguardo hanno una eco anche in Senato, dove, nella seduta dell’8 giugno 1929, il Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Belluzzo afferma: "Il lago di Nemi, il cui livello è stato abbassato di circa 7 metri, ha restituito alla luce del sole una parte delle prima nave in condizioni tali da restare ancora una volta confermato che la terra e l’acqua sono più gelosi conservatori dell’uomo. C’è qualcuno che davanti a quel che rimane della prima nave affondata circa 19 secoli fa, si domanda se valeva la pena di compiere un così enorme lavoro di recupero. Onorevoli Senatori, consentitemi di rispondere a quel qualcuno e a tutti i dubbiosi: sì, valeva la pena. Se anche le spese e gli sforzi avessero dovuto essere maggiori, sarebbe comunque valsa la pena." E poi, ancora: "Qualche ingenuo attendeva forse di ritrovare la nave intatta nelle sue strutture e con tutti i suoi ornamenti, e si sente oggi deluso; ma quelli che conoscono le vicende due volte millenarie delle navi di Caligola dichiarano che la realtà supera le speranze, e che il rapporto fra lo stato attuale e quello originale della nave scoperta è di gran lunga superiore al rapporto tra lo stato attuale e quello originale del Foro Romano. E c’è poi un immenso interesse tecnico giacché la nave recuperata ci appalesa a quale perfezione ed a quali virtuosismi fosse pervenuta, presso i Romani, l’arte del costruire navi di legno". Gli oggetti rinvenuti a bordo vengono momentaneamente custoditi in una baracca, e sono: alcune fistole di piombo; un rubinetto funzionante - che diverrà, per la sua tecnica che potremmo definire moderna, uno dei più famosi ed ammirati reperti; una testa di lupo in bronzo, in parte ancora dorata, che luccicava al sole e che porta un anello stretto fra i denti; numerosi tubi di piombo e di bronzo, cerniere; una gran quantità di chiodi di ferro, di bronzo e di rame, della cui speciale tecnica d’impiego si tratterà in seguito; un gran numero di chiodini dalla testa dorata simili alle moderne puntine da disegno; grandi tegole di rame dorato e lastre di cotto a forma trapezoidale cogli orli dei lati maggiori rialzati, chiamate embrici ed usate come tegole; molti fogli di piombo sottilissimi che servivano a coprire la chiglia con uno scopo che sarà spiegato più avanti; alcune bellissime teste di felino. Il 7 novembre 1929 improvvisamente tutta la zona intorno alla nave si sfalda e s’abbassa scivolando alquanto nel lago. Diminuendo il livello, la pressione dell’acqua sulle pareti era diminuita, e così la crosta superficiale, ormai disseccata al sole, era scivolata sulla parte sottostante, ancora allo stato semiliquido. I visitatori, numerosi come tutti i giorni, sono presi dallo spavento sentendosi sfuggire la terra sotto i piedi, e salgono in fretta sulla nave per mettersi al sicuro; ma il fenomeno è di breve durata. Tutto si riassetta di nuovo ed i lavori possono riprendere con rinnovata lena.

Il salvataggio. La distruzione.
La prima nave, strappata alle acque del lago, è ora al riparo sotto un capannone nell’attesa che sia costruito un museo che possa degnamente accoglierla, insieme ai reperti che le sono stati trovati sopra ed intorno. A questo punto nascono due correnti di pensiero. Alcuni sono contrari al salvataggio anche della seconda nave; altri invece pensano che si debba recuperare anch’essa. I primi adducono a ragione delle loro perplessità il fatto che le strutture della nave che è ancora sott’acqua sono identiche a quelle del natante che è già stato tratto a riva, e i reperti che si troverebbero, sempre che se ne trovassero, sarebbero certamente del tutto simili a quelli già rinvenuti sopra ed attorno alla prima nave; quindi sarebbero inutili sia le spese sia le fatiche. I secondi, invece, sono dell’avviso che si debba trarre fuori delle acque anche l’altra imbarcazione. Essi affermano che, in ogni caso, spese e fatiche sarebbero ampiamente giustificate dall’importanza di ciò che sta ancora sotto il Lago di Nemi. Prevalse la seconda tesi: anche l’altra nave fu tratta a riva ed entrambe trovarono posto nel Museo delle Navi Romane che possiamo ancora ammirare. Purtroppo possiamo ammirare solo il museo e non più le navi per le ragioni che saranno narrate tra poco. Il museo, maestoso anch’esso, le conservò entrambe. Alzando gli occhi ad osservarne l’altissimo tetto, sembra che questo abbia la forma di un’enorme imbarcazione rovesciata dalla quale si possa ammirare il fasciame, in alto, sopra le nostre teste. Anche i numerosi reperti trovarono posto accanto alle due antiche navi. Leoni e pantere di bronzo guardavano il turista incutendogli rispetto e destandone meraviglia ad un tempo. Antichissimi macchinari che, nella loro modernità, ci stupiscono e che credevamo frutto di scienza recente, erano, invece, il risultato di una tecnica millenaria. Ed il turista, e anche lo studioso, anzi soprattutto lo studioso, si aggirava fra tutti quegli oggetti che erano risorti a nuova vita con quell’ammirata meraviglia piena di rispetto per una civiltà che aveva forgiato il mondo antico e risplendeva ancora in quello di oggi. I secoli passati scorrevano lenti di fronte a chi aveva la ventura di poterli osservare nel loro lento incedere maestoso. Nel loro muto linguaggio parlavano a chi sapeva ascoltarlo. Per i millenni futuri, alle future generazioni. Ma venne il fuoco. Tutto avvampò nelle fiamme: le belle navi, i tanti oggetti antichi, la loro storia. Perché? Correva l’anno 1944 e c’era la seconda guerra mondiale. La notte tra il 31 maggio e il 1 giugno le fiamme rischiararono il Lago di Nemi. Bombardamento? Cannoneggiamento? Scintille sfuggite ai fornelli degli sfollati che, riparatisi nel museo, cuocevano il desinare sotto le navi? Atto vandalico delle truppe tedesche in ritirata? Non si seppe mai, con certezza, il perché di quelle fiamme. Tutto andò distrutto. Si salvarono solo quei reperti che erano stati, precedentemente, trasportati nel Museo Nazionale Romano, proprio per essere più sicuramente conservati. Ora quel che resta, quel che si è salvato, è stato ricomposto alla venerazione dei visitatori e degli studiosi. Le due navi sono state riprodotte in scala 1/5, e questi modellini sono, l’uno dietro l’altro, esposti in un’ala del museo, bastandone, purtroppo, una sola a contenerli entrambi. Quel che resta, però, è ancora sufficiente a stupire il visitatore. Nel prossimo capitolo, che sarà l’ultimo, saranno esaminati nella forma e descritti nell’utilizzo tutti i reperti ora esposti.

Il museo
Il nostro viaggio sulle navi di Caligola volge, ormai, al termine. Le grandi opere, le fatiche, le illusioni, la pazza volontà dell’imperatore, la storia millenaria, l’esaltante recupero, il flagello del fuoco che le ha distrutte, tutto è passato. Rimane un grande museo quasi vuoto. Tuttavia, nonostante quel che resta sia molto meno di quel che c’era, può ancora interessare il visitatore, specialmente se è guidato passo passo in questo viaggio nella storia da qualcuno che sappia illustrargli ciò che vede e raccontargli ciò che fu. Nella navata di sinistra vi sono due modelli, scala 1/5, delle navi andate distrutte dalle fiamme. I legni usati per la costruzione di quelle furono la "Quercus sessiflora", la "Quercus peduncolata" ed il "Pinus halepensis". Le analisi del legno (dette paleobotaniche, perché effettuate su legni antichi) hanno evidenziato un uso dei legni adeguato alle esigenze costruttive, con l’impiego di specie diverse e persino di parti diverse della pianta in relazione alle funzioni che dovevano avere. Per il fasciame, per il quale era necessario un legno dolce, fu usato il pino; mentre per la costruzione del ponte venne scelto il legno di quercia. Anche il taglio delle travi venne eseguito in modo da permettere la massima resistenza. La carena era spalmata con minio di ferro, ed era impermeabilizzata con un rivestimento di lana impregnata di una miscela di pece vegetale, di bitume e di colofonia su cui erano applicate, con chiodini di rame, lamine di piombo spesse un millimetro e lunghe m.l,40. Questo rivestimento era un’ottima difesa contro gli attacchi dei molluschi "xilofagi" (mangiatori di legno), e precisamente di teredine, un mollusco che si trova nelle acque del mare. Il suo corpo é vermiforme e quasi trasparente, protetto da due valve lunghe 8-9 millimetri che gli proteggono la testa. Quando è ancora allo stato di larva questo mollusco si fissa a tutti gli oggetti di legno che sono sommersi ed usa le valve come due piccole pale per scavarvi delle gallerie che possono arrivare fino a 30 cm. Allo stesso tempo ne riveste le pareti con un sottile strato calcareo. È chiaro che se un’imbarcazione è aggredita da un grande numero di teredini, la chiglia ne é gravemente danneggiata fino alla linea di galleggiamento. A questo punto dobbiamo sottolineare che i romani conoscevano sia il mollusco che i danni che provocava e, soprattutto, come lo si dovesse neutralizzare. Per un popolo di pastori.... Ci si domanda, però, perché si fosse usato questo rivestimento e tutti quegli accorgimenti or ora descritti nel caso delle navi di Nemi. Il lago non è il mare e la teredine è un mollusco di acqua salata. Perfezionismo d’altri tempi ed amore del particolare anche se superfluo, oppure paura dell’ira di Caligola che pretendeva la perfezione? Non lo sapremo mai. Continuiamo a parlare dello studio cui furono sottoposti i due natanti: l’esame delle gomene e delle salmastre ha rivelato che le prime furono fabbricate con fibre di "sparto" (ossia ricavate dallo stelo o dalle foglie di una graminacea); le seconde con fibre di canapa. Quanto ai collegamenti del fasciame, cioè il sistema di costruire una trave collegando fra loro molte assi più piccole fino ad ottenerne una della lunghezza voluta, erano fatti con la tecnica detta "paparella", cioè ogni semitrave era dentata e combaciava con le dentature della successiva, mentre il tutto era stretto da sottili ma robuste fasce metalliche che le teneva unite fra loro. Per quanto riguarda la chiusura del fasciame, era stata ottenuta sia a poppa che a prua con la tecnica dell’unghia persa, che era ed è il sistema di congiungere le tavole fra di loro in modo che convergano in un solo punto a guisa di ventaglio. Il tutto, anche qui, era stretto da fasce di metallo robuste e sottili. Si desidera sottolineare che, al fine di non tediare il lettore con troppi particolari tecnici, è descritta solo una minima parte delle avanzatissime soluzioni impiegate nella costruzione delle due navi. Quanto alla seconda nave è da segnalare l’interessante simmetria della poppa e della prua adottata per poter andare nelle due direzioni, senza dover essere costretti a far ruotare l’imbarcazione su se stessa. A tal fine alle estremità vi erano quattro timoni per cambiare rapidamente direzione di rotta, avvalendosi appunto dell’eguaglianza del disegno delle due estremità che permetteva tale manovra nonostante le scarse dimensioni dello specchio d’acqua. Addossato ad una parete, nella sinistra c’è un pannello nel quale si possono ammirare vari esemplari di chiodi usati sui due natanti: si sono salvati dall’incendio di quel triste giorno. Hanno una grande varietà di dimensioni, forma ed uso. Da pochi centimetri ad oltre mezzo metro, a sezione quadrangolare od a testa a forma di piramide, con la sommità schiacciata e piccole protuberanze. I materiali usati sono, per la maggior parte, il rame ed in misura minore il bronzo ed il ferro. Dalle analisi micrografiche alle quali sono stati sottoposti si evince la grande purezza, mentre l’alta percentuale di rame usato rendeva i chiodi molto resistenti all’ossidazione. Per evitare, inoltre, corrosioni e deformazioni del metallo, che il contatto diretto con il legno di quercia poteva causare, i chiodi vennero incapsulati in apposite "bussole" cilindriche di legno dolce come l’abete ed il pino. Avviciniamoci, ora, all’antichissima ed autentica ancora romana posta al centro della grande sala di sinistra: si è salvata dal fuoco perché è di ferro ed è del tipo a "ceppo mobile". Questo vuol dire che la metà superiore (simile ad una grande T maiuscola) si poteva separare dal resto della struttura in modo che questa fosse divisa in due parti. Una la si collocava a destra della nave e l’altra a sinistra, con evidenti risultati di stabilità durante la navigazione. Ed anche qui è d’uopo fare una precisazione interessante. L’ancora a ceppo mobile, chiaramente inventata dai romani, fu "riscoperta" nel secolo XIX dalla Marina inglese e, per tale motivo, fu chiamata "ancora ammiragliato". La Marina italiana, dopo il rinvenimento dell’ancora romana nel Lago di Nemi in data 20 maggio 1930 presso la riva in località Pizzo Raschiello, rivendicò quell’invenzione e con una apposita circolare del gennaio 1938 dispose che la si dovesse chiamare "ancora romana". Abbiamo detto che si era salvata dal fuoco perché di ferro, ma bisogna precisare che era stretta in una guaina di legno. Quella guaina andò perduta in quel triste evento, ed è stata sostituita da un’altra perfettamente ricostruita. Per completezza di informazione bisogna dire, inoltre, che sul ceppo mobile vi è inciso il peso in libbre: 1275 (pari a Kg. 417). Presso l’ancora della quale abbiamo trattato ne fu trovata un’altra recuperata il 27 ottobre 1930. Purtroppo non ebbe la stessa fortuna della precedente: essendo di legno di quercia ed avendo il ceppo di piombo andò totalmente distrutta ed ora ne possiamo ammirare solo una copia. Proseguiamo la passeggiata nella storia ed osserviamo gli oggetti che sono esposti intorno ai due modelli delle navi. Ci avviciniamo, così, ad una "noria" cioè una pompa usata per vuotare la "sentina" della nave, che è la parte più bassa nella quale si raccolgono le acque che, nonostante ogni perfezione costruttiva, filtrano attraverso la chiglia. Quella esposta nel museo è una ricostruzione ridotta, resa possibile grazie al ritrovamento di una ruota dentata con l’asse a sezione quadrata e di alcune boccole di bronzo. Si compone di una serie di recipienti che, incernierati ad una catena verticale, sono mossi da una manovella che, dando a tutto il complesso un movimento dal basso verso l’alto, fa sì che si riempiano d’acqua che viene espulsa quando, finita la corsa verticale, il recipiente si dirige di nuovo verso il basso capovolgendosi. La visita al museo prosegue: possiamo ammirare una pompa aspirante-premente avente lo stesso scopo della noria che è stata descritta sopra. Di concezione modernissima, è mossa da una leva a due bracci e si compone di due stantuffi che salgono e scendono con movimento alterno e mentre uno costringe l’acqua ad entrare da un lato, l’altro, con movimento opposto, la espelle dall’altra parte. Purtroppo si tratta di una ricostruzione, ma vicino c’è quel che resta dell’originale dopo l’incendio. Uno dei pezzi più importanti e tecnicamente evoluti, dal punto di vista della funzionalità, è la piattaforma della gru ruotante, dallo studio della quale si evince a quale livello di conoscenze scientifiche fossero pervenuti i costruttori navali dell’antica Roma. Non solo conoscenza della meccanica, ma in questo caso anche delle leggi della fisica, come l’attrito ed il calore che ne deriva, ed il conseguente ingrossamento dei metalli che scorrono gli uni sugli altri, nonché il relativo consumo di questi ed i mezzi idonei per eliminarlo, o meglio per ridurlo. La piattaforma si compone di due dischi, uno sovrapposto all’altro. Quello inferiore è fisso, mentre il superiore è ruotante. Fra i due sono interposte delle sfere di metallo fissate mediante staffe di ferro chiodate che, scaricando l’attrito su di un solo punto, ne diminuiscono gli effetti frenanti. Insomma: è il cuscinetto a sfere! È utile ricordare che i primi cuscinetti a sfere risalgono al XVIII secolo, cioè a quando le nazioni più avanzate dal punto di vista industriale dovettero risolvere problemi di dinamica meccanica. Ebbene, il grande numero di tali sfere che sono state rinvenute sopra ed attorno alle navi permette di ipotizzare la presenza di almeno quattro di questi macchinari che servivano a sollevare grossi pesi. Analoghe piattaforme, con identica utilizzazione, si dovevano servire dei rulli a forma di cono in legno rinvenuti a prua della prima nave. Un disegno del Malfatti del 1895 testimonia la presenza di rulli a forma di cilindro in bronzo che servivano, probabilmente, per trascinare grossi pesi, di cui purtroppo non si è mantenuto alcun esemplare. Alla parete opposta a quella d’entrata sono riunite in una rastrelliera alcune fistulae aquariae. Sono dei tubi di piombo ottenuti saldando fogli di questo metallo. Servivano a convogliare l’acqua dalle rive del lago fin sulle navi. Portano impresso sul fianco il nome di chi le volle. Su quei tubi è inciso: Caesaris Aug Germanici, cioè Caligola. In conseguenza di ciò fu facile collocarle nel tempo: furono costruite nel periodo 37-41 d.C. In una vetrina sono esposte parti di opus sectile con lastre di serpentino e porfido utilizzate per le decorazioni dei pavimenti (le più spesse) e delle pareti (le più sottili). Ed ancora vi sono esposte strisce di pasta vitrea bianca, rossa e verde, lavorata a bacchetta, utilizzate nei mosaici come motivo decorativo associato all’opus sectile ed al tessellatum. In entrambi i saloni che contenevano le due navi è visibile un tratto della strada basolata (dalla pietra usata per le costruzioni stradali antiche) che alla altezza di Cynthianum, l’odierna Genzano, si distaccava dalla Via Appia per condurre al Santuario di Diana. Tale strada fu rinvenuta durante gli scavi per la costruzione del Museo delle Navi. All’entrata di questo si può ammirare il calco della statua bronzea di Diana o di Drusilla (sorella di Caligola) in atteggiamento di sacerdotessa. L’originale recuperato nel lago nell’anno 1895, insieme ad altre sette statuine di minori dimensioni, rappresentanti genii e sacerdotesse, è ora esposto al British Museum di Londra. Accanto, o meglio un poco prima di queste statuine, sempre all’entrata del museo, v’è una colonnina tortile in pavonazzetto, con capitello corinzio rinvenuta presso la seconda nave. Vicino ad essa una base marmorea proveniente anch’essa dalla seconda nave dimostra, essendo piuttosto di grandi dimensioni, quanto grande dovesse essere anche la relativa colonna. E torniamo all’interno. Due frammenti di pavimento a mosaico realizzati con la tecnica mista dell’opus sectile in porfido e serpentino, dell’opus tessellatum in palombino e dell'opus vermiculatum in pasta vitrea lavorata a bacchetta. Entrambi provengono dalle ricerche condotte sulla prima nave per conto di Eliseo Borghi nell’anno 1895. Per descrivere le numerose cerniere di bronzo, di varie dimensioni, usate per gli infissi delle due navi, bastano due parole: moderne e perfette. Facciamo, quindi, cenno ai numerosi laterizi rinvenuti soprattutto a bordo della prima nave: tuboli cilindrici usati per sostenere il tavolato del ponte che, incastrati in coppia, formavano un’intercapedine tra questo e lo scafo. E poi tuboli a sezione rettangolare usati per il riscaldamento. Infine un mattone bipedale armato con barre di ferro, su alcune delle quali è impressa una C (Caesar), forse utilizzato nei forni. Finalmente siamo arrivati a descrivere tutti i più importanti reperti custoditi nel Museo delle Navi. Un pensiero, a questo punto, sfiora la mente di chi ha la ventura di osservarli: se questi erano gli oggetti che furono affondati con le due navi nelle acque del Lago di Nemi a seguito della decretata damnatio memoriae, dobbiamo supporre che i romani non vi annettessero grande importanza. Questo sta a quantificare il valore aggiunto dalla Storia a questi reperti antichi, malgrado non siano né d’oro né d’argento, ma di bronzo, d’argilla, di legno. Le navi, più che imbarcazioni, erano grossi natanti riccamente addobbati sui quali l’imperatore amava dare feste e ricevimenti secondo un’usanza molto diffusa durante l’Impero. Sappiamo che Domiziano dava ricchissimi ricevimenti nella sua grandiosa villa sul Lago Albano. Tacito ricorda l’uso di Tigellino, prefetto di Nerone, di offrire cene su grosse zattere trainate da barche nello Stagno di Agrippina, un bacino in parte artificiale nel Campo Marzio a Roma. Svetonio racconta che Caligola "fece costruire navi liburniche a dieci ordini di remi con le poppe coperte di gemme, vele policrome, con terme, portici, triclini di grande ampiezza e addirittura con una grande varietà di viti e di alberi da frutta. E su queste soleva navigare standosene sdraiato tutto il giorno lungo le rive della Campania tra danze e musiche". Queste descrizioni, pur trattandosi di altre imbarcazioni, potrebbero valere anche per le due navi di Nemi; per quanto vi siano studiosi che preferiscano identificarle con santuari galleggianti collegati al vicino Tempio di Diana. Il Museo delle Navi Romane del Lago di Nemi è mèta di turisti. Entrano, guardano, s’interessano molto ai numerosi reperti, seguono le spiegazioni di tutto ciò che concerne le navi, ma rimangono delusi quando vengono a sapere che sono andate distrutte e che quelli esposti non sono che modelli in scala 1/5. Per cercare di ovviare a questo, un piccolo gruppo di cittadini sensibili ed amanti delle antiche cose s’è fatto promotore di un’associazione per la ricostruzione di almeno una delle due navi a grandezza naturale. È stata costituita a tal fine l’Associazione Dianae Lacus l’11 dicembre 1995, alla quale successivamente si sono affiancati vari enti, pubblici, privati e di amministrazione locale. Insieme hanno cercato e trovato alcuni sponsor anch’essi sensibili alla storia di Roma. È stata così costruita, dinanzi al Museo delle Navi, una struttura prodiera alta e snella che si staglia verso il cielo e riproduce il profilo della prima nave dalla ruota di poppa a quella di prua. Speriamo di vederla, presto, completa. Il primo millennio ha visto le navi nascere ed affogare sott’acqua. Il secondo millennio le ha viste bruciare. Speriamo sinceramente che il terzo ne vedrà rinascere almeno una, ad eguagliare la mitica Fenice. Ce lo auguriamo tutti. Buon lavoro, Associazione Dianae Lacus! Massimo e Marina Medici