Nemi e il Grand Tour

Che cos’era il Grand Tour? Era un viaggio - praticamente un must - che il giovane rampollo di famiglia agiata doveva fare per completare la sua educazione\istruzione. Toccava tutti i principali luoghi d’interesse storico e artistico dell’Italia e della Grecia, e durava diversi mesi, a volte anni. Soprattutto se il giovane era appassionato d’arte, il viaggio diventava, da semplicemente istruttivo, decisivo per la sua formazione. Non esisteva ancora il ‘villaggio globale’, e c’erano forti differenze fra il Nord e il Sud d’Europa: e questi ragazzi nordeuropei o nordamericani, appena usciti dal college o dalle mani dell’istitutore privato, venivano a contatto con realtà geografiche, sociali, antropologiche diversissime dalle loro; e molte volte ne rimanevano abbagliati come di fronte ad una rivelazione e la loro vita prendeva una piega diversa.

L’uso cominciò nel tardo Settecento, e si protrasse fino ai primi del Novecento. Generazioni di giovani lord inglesi, di baroncini tedeschi, di marchesini svedesi, di figli di industriali americani, di possidenti danesi e ufficiali polacchi passarono per Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, la Sicilia, Atene e Costantinopoli, e ne uscirono trasformati. Ci fu chi non volle più tornare in patria, e chi, tornatovi a malincuore, per tutta la vita continuò a rimpiangere la semplicità arcadica dei paesetti, i monumenti, le donne e i paesaggi d’Italia.

Roma era naturalmente la tappa principale, assolutamente d’obbligo. Il viaggiatore faceva una scorpacciata di antichità e monumenti, di feste popolari e di benedizioni papali; poi usciva sull’Appia per continuare verso sud, e improvvisamente si trovava in un altro mondo.

L’Agro romano era paludoso e mefitico, quasi spopolato per via della malaria che decimava i pochi poveri costretti a viverci. La scelta per questi derelitti era morire di fame o morire di malaria. Essendo l’Agro, in sostanza, un immenso pascolo, un enorme granaio, un eden per la caccia a selvaggina pregiata, si preferiva sfidare la sorte e tentare di sopravvivere alle zanzare. L’Europa vibrava nell’Età dei Lumi, ma il Nordico viaggiatore scopriva che a un passo da Roma immortale c’erano più pecore che uomini, e più zanzare che pecore. Aduso in patria a sole tiepido, cieli chiari e paesaggi soavemente ordinati dall’uomo, vedeva inorridito prima, e affascinato poi, ruderi spezzati, fumi, morte, desolazione, abbandono. S’inoltrava sotto il sole nella morta gora, sull’antico basolato dell’Appia; di qua e di là della via solo paludi e campagne solitarie, qualche raro bufalo, poche case, contorni sfumati dai vapori dell’umidità, resti smozzicati d’acquedotti. Il senso panico della natura lo pigliava; in una morsa d’angoscia stranamente attraente attraversava la silenziosa campagna col segreto terrore d’esser punto da una zanzara fatale.

Come la strada cominciava a salire, respirava di nuovo, cautamente dapprima, poi sempre più franco, come uscito da un incubo. Arrivato infine ai Castelli, ristorato da un sorso di vino, si scopriva dentro una rinnovata voglia di vivere. Tutto gli appariva fresco come l’acqua dei fontanili, tutto gli sembrava bello come le donne dall’andatura maestosamente calma determinata dal gioco d’equilibrio della conca in testa.

Venuto per la storia di Roma, scopriva la preistoria del Mito, scopriva il senso della pre-civiltà perduta, scopriva l’uomo antico, incontaminato e sacro come i luoghi che abita. Venuto per la religione dei Papi, scopriva l’Arcadia e Diana; tutto un mondo - e un modo di vivere - bucolico, fermo nel tempo a seguire l’antico ritmo della Natura, che sembrava ormai poter esistere solo in Omero.

E i paesaggi! Il Romanticismo incombeva, e boschi selvaggi, forre, laghi ombrosi e vallate a strapiombo erano quel che ci voleva per entusiasmare questi nordici, visivamente abituati a paesaggi ben diversi, di contrasti meno marcati e di colori più tenui. Essi imparavano che ‘fuori porta’ c’era tutta una realtà da scoprire, posti incantevoli e natura affascinante. E lasciavano traccia del loro entusiasmo nei diari, negli appunti di viaggio, nelle lettere; e, se sapevano disegnare e dipingere, facevano schizzi e quadri dei panorami, degli angoli dei paesi, dei pittoreschi vicoli e degli abitanti: tutto ciò che noi oggi definiamo ‘caratteristico’ fu fermato sulla carta da questi ‘appassionati pellegrini’, precursori del giovane Harold di Byron.

La fortuna turistica di Roma e dei suoi dintorni nasce da qui. Dall’entusiasmo di questi stranieri che riportarono a casa disegni e racconti di viaggio che costituirono per noi una insostituibile campagna pubblicitaria durata due secoli, di cui ancora godiamo le conseguenze.

E vennero scrittori e pittori e musicisti.

Venne Gogol, venne Stendhal, venne Turghenev; venne Goethe, Turner, Karen Blixen; vennero Byron, Keats, Shelley, Dumas, Gide, Cechov, Thorwaldsen, Dickens, Gounod, Fragonard, Hans Christian Andersen... Non si può nominarli tutti.


Lungo la strada accidentata che da Genzano scende al lago di Nemi si trovano da sei a otto tratti, in parte perfettamente conservati, di una antica strada romana che, partendo da Ariccia, doveva passare attraverso i monti. Poiché si vede chiaramente che essa procede scendendo sempre più e arriva fin quasi al lago, è probabile che essa non conducesse a un'altra città, ma solo a un tempio.
Barthold Georg Nieburg, Epistolario 1816-1823
 
Una mia località prediletta dei dintorni di Roma era il villaggio di Nemi col suo lago che appare all'occhio in fondo a un vasto cratere, circondato da boschi folti. Il giro del lago lungo la strada superiore è una delle più incantevoli passeggiate che si possa pensare: nelle giornate limpide, verso il tramonto, vidi il mare dalle alture di Genzano, e me ne rimase un ricordo affascinante e incancellabile.
Charles François Gounod, lettere, 1839
 
La notte è tranquilla e fresca; il mare un impercettibile mormorio in lontananza; il lago di Albano e lo specchio di Diana riflettono davanti a noi le stelle del cielo. Che silenzio! Che pace su questi monti, in queste pianure dove la natura e l'uomo hanno sollevato a gara tante tempeste! Le tenebre regnano su queste creste un tempo illuminate da vulcani; dolcemente cullati dal muschio e dai fiori, i laghi dormono nel seno di questi crateri enormi, da cui anticamente fuoriuscivano lapilli; e là, dove in passato ribollivano torrenti di lava ardente, oscure foreste ondeggiano ai venti profumati della notte. E in questa Campagna cupa e muta, questo grande sepolcro di gloria e di uomini [...] non vi sembra di scorgere miriadi di ombre sollevare le loro pietre funebri, e, ammantate nel loro lenzuolo, vagare attorno alla città santa? Io non lo so, ma tutti i miei sensi sono contemporaneamente scossi, e tale è su di me la potenza di tutti questi nomi, tale è la mia simpatia per questi rispettabili morti, che dopo essermi apparsi di giorno li vedo tutti e molti altri ancora che ritornano dalle tenebre. Ne vedo spuntare dai monti, dalle pianure, da tutti i campi di battaglia, da tutte le città in rovina; il Tevere stesso e la tomba viva delle vestali restituiscono le loro vittime; la cenere dei roghi antichi ritorna in vita e, fin nelle profondità tenebrose dei mari, tutto si popola ai miei occhi di temibili fantasmi. Con l'elmo o con la tiara, con la regal benda o con il berretto frigio, nessuno manca all'appuntamento notturno; formano una catena immensa, silenziosa, e vengono fuori da tanti sepolcri: si direbbero convitati notturni alla festa dei morti.
Ma spunta l'alba, e la visione dantesca svanisce. Con essa dunque scompaiono e si immergono di nuovo nel silenzio del nulla tutti questi ricordi il cui turbine mi trascina e mi prende come una vertigine. Nasce il giorno; scene più dolci ci invitano; riposiamoci del passato nel presente, delle tempestose visioni della storia nella tranquilla contem-plazione della natura. Le rocce aride e frastagliate del paese degli Ernici ondeggiano già in questa atmosfera rossastra, garza diafana di vapore di cui il sole si circonda quando sorge. Sta per spuntare, appare, e lo spettacolo comincia.
Charles Didier, Les Amours d'Italie, 1859.
 
Il castello degli Sforza (a Genzano) mi piacque assai. Egli sta sul dosso del monte, in cima ed un po' fuori dell'abitato. Gode di una vista immensa verso il mare; e verso i colli, dell'austero aspetto di Monte Cavi (M. Cavo), di Nemi, della selva della Faiola, e dello sprofondo, nel quale dormono le acque brune del lago. Qui, pensai, vorrei stare, se fosse possibile. [...] La bellezza di Genzano sta alla riva del lago; vi si giungeva allora per un ripido ed incomodo sentiero. Ogni mattina me ne andavo giù cogli attrezzi in collo; e l'ingiù era nulla, facilis descensus averni; all'insù ti voglio, al revocare gradus, sull'ore infocate!… Sulla riva del lago è il famoso platano. Esso non presenta più la scorza chiazzata, ed in continua muta, de' platani giovani; ma ha fatto un tronco grosso, nodoso e rugoso come fosse un vecchio castagno: me lo studiai a tutto agio, e per l'intera stagione: combinando col lavoro del pennello la lettura e rilettura de' miei pochi libri; e più di tutto il lavorio della mente, in quelle lunghe e solitarie ore beate che passavo circondato dagli inesauribili tesori d'una bella natura.

Massimo D'Azeglio, I miei Ricordi, Cap. XXIII, ed. Paravia 1929 (Firenze 1866).
 
Nel recinto del santuario di Nemi cresceva un albero da cui non era lecito spezzare alcun ramo. Soltanto uno schiavo fuggitivo, se ci fosse riuscito, poteva spezzarne uno. In questo caso egli aveva il diritto di battersi col sacerdote, e, se l'uccideva, regnava in sua vece col titolo di re del bosco, rex nemorensis. Secondo l'opinione degli antichi, questo ramo fatale s'identificava con quel ramo d'oro che Enea colse per invito della Sibilla prima di accingersi al suo periglioso viaggio nel regno dei morti. Si credeva che la fuga dello schiavo rappresentasse la fuga di Oreste e che il combattimento col sacerdote fosse una reminiscenza dei sacrifici umani offerti un giorno alla Diana Taurica. Questa regola di successione per mezzo della spada veniva ancora osservata nei tempi imperiali; infatti Caligola, tra gli altri capricci, pensando che il sacerdote di Nemi avesse tenuto troppo a lungo il suo ufficio, pagò un più robusto sgherro perché l'uccidesse...
Nei tempi antichi questo paesaggio silvano era scena di una strana e ricorrente tragedia. Sulla sponda settentrionale del lago, proprio sotto gli scoscesi dirupi su cui si annida il moderno villaggio di Nemi, si ergeva il sacro bosco e il santuario di Diana Nemorensis, la Diana del bosco [...]. In questo bosco sacro cresceva un albero intorno a cui in ogni momento del giorno, e probabilmente anche a notte inoltrata, si poteva vedere aggirarsi una truce figura. Nella destra teneva una spada sguainata e si guardava continuamente d'attorno come se temesse a ogni istante di essere assalito da qualche nemico. Quest'uomo era un sacerdote e un omicida; e quegli da cui si guardava doveva prima o poi trucidarlo e ottenere il sacerdozio in sua vece. Era questa la regola del santuario: un candidato al sacerdozio poteva prenderne l'ufficio uccidendo il sacerdote, e avendolo ucciso, restava in carica finché non fosse stato ucciso a sua volta da uno più forte o più astuto di lui. L'ufficio tenuto in condizioni così precarie gli dava il titolo di re; ma certo nessuna testa regale riposò tra maggiori inquietudini, né fu mai turbata da più diabolici sogni. Anno per anno, d'estate o d'inverno, col tempo buono o con la bufera, egli doveva proseguire la sua solitaria vigilia, e se cedeva a un tormentato sonno lo faceva a rischio della sua vita. Una diminuita vigilanza, la più piccola diminuzione nella forza delle sue membra o della destrezza della sua guardia, lo metteva nel più grave pericolo; l'imbiancarsi dei suoi capelli poteva segnare la sua condanna a morte [...]. Ai miti pii e pellegrini di quel santuario sembrava certo che il solo suo aspetto oscurasse la bellezza di quel paesaggio, come quando una nuvola, in un giorno di luce, copra a un tratto il sole. L'azzurro fantastico del cielo italico, l'ombra gaia del bosco e lo scintillare dell'onda mal s'accordavano con quella cupa e sinistra figura. Meglio possiamo raffigurarci la scena come poté apparire a qualche viandante sorpreso dalle tenebre in una di quelle selvagge notti d'autunno, quando le foglie morte cadono dense e sembra che i venti cantino il lamento funebre sull'anno che muore. Ecco veramente una cupa visione, accompagnata da una malinconica musica; lo sfondo nero della foresta, che spicca contro il cupo e tempestoso cielo, il sospirar dei venti tra i rami,il fruscio delle foglie morte sotto i piedi, il lambire dell'acqua gelida contro la sponda, e, in primo piano, una tenebrosa figura che si aggira a gran passi, su e giù, ora nell'ombra e or nella luce, con un lampeggiar d'acciaio sopra la spalla, quando 1a luna pallida, tra nube e nube, l'illumina, tra l'intrico dei rami...

James G. Frazer, Il ramo d'oro, 1922